Una rubrica tutta dedicata al visual kei, a cura di Stefania Viol.
Il visual kei ヴィジュアル系 è un filone nato intorno alla fine degli anni ’80 nell’ambito underground della musica rock e heavy metal giapponese. Il termine è formato da vijuaru ヴィジュアル, trascrizione nel sillabario fonetico giapponese katakana dell’aggettivo inglese “visual” a indicare l’impatto visivo, e il suffisso giapponese kei系, molto utilizzato per indicare degli individui che appartengono a un determinato gruppo sottoculturale giovanile aderente a uno stile estetico distintivo: letteralmente “persone dall’impatto visivo”.
Una denominazione più che azzeccata: infatti, pur essendo considerato in Giappone un genere musicale a tutti gli effetti, più che essere caratterizzato da un sound particolare (si passa da musica vicina allo heavy metal al pop-rock), la categorizzazione degli artisti all’interno del visual kei si basa su caratteri di tipo estetico. Secondo la definizione del movimento, vi rientrano band i cui membri sono quasi esclusivamente di sesso maschile, dall’aspetto trasgressivo e androgino, che puntano appunto sull’impatto visivo: una descrizione alquanto generica e vaga che, non dando al fenomeno dei confini precisi, lo rende estremamente eterogeneo al suo interno. Questa varietà non si limita al lato musicale, ma si allarga alla stessa estetica delle band, sulla quale si basa del resto il concetto di visual kei, tanto che spesso si ricorre all’utilizzo di alcune sotto categorie: si passa dall’aura dark e macabra degli artisti appartenenti allo ero guro kei, ai colori sgargianti dello oshare kei; dai costumi che prendono a modello l’aristocrazia barocca, vittoriana e gotica di quello che spesso è denominato shatorikaru kei, a quelli elaborati sulla base degli abiti tradizionali giapponesi dello angura kei e così via.
Il visual kei è comunemente considerato il primo movimento musicale rock made in Japan: è il frutto di una costante evoluzione all’interno del mondo della musica underground per cui alcuni artisti giapponesi si sono gradualmente distaccati dai canoni dello hard rock, heavy metal e glam rock occidentali, per sperimentare e mischiare sound e look diversi, unendovi talvolta elementi tratti dalla tradizione autoctona, come ad esempio la linea melodica kayōkyoku,[1] e l’influenza estetica delle varie forme teatrali giapponesi e del manga, creando così una musica e un look estremizzato non più riconducibile ai generi stranieri inizialmente presi a modello. Proprio perché è il risultato di un processo di trasformazione graduale, è difficile collocare la nascita del visual kei in un momento preciso, ma gli studiosi concordano solitamente nel riconoscere nella band X (in seguito X JAPAN) i pionieri del movimento, essendo stati i primi a utilizzare il termine visual in riferimento alla propria attività musicale e, grazie al grandissimo successo delle loro produzioni, a diffonderlo tra il pubblico.
L’originalità del movimento non è l’unico punto d’interesse che porta gli appassionati e studiosi del Giappone a prenderlo in considerazione, ma giocano un ruolo preponderante anche il suo carattere sottoculturale e il suo impatto sulla società giapponese: grazie ad artisti come X JAPAN e LUNASEA, il visual kei ha avuto un boom che gli ha permesso di conquistare uno spazio nella musica mainstream del Paese per tutta la durata degli anni ‘90, raggiungendo e influenzando così una consistente fascia di popolazione, soprattutto giovanile. Solitamente, la carica trasgressiva confina i movimenti culturali a un mercato di nicchia o a boom molto brevi, come quello del glam rock anglosassone, riconducendo subito dopo il genere nel mondo underground, lontano dagli occhi e dai gusti del grande pubblico. Può sembrare sorprendente che il visual kei, nonostante l’estetica e il carattere provocatori e ribelli, abbia avuto un così grande successo nell’ultimo decennio del Novecento, soprattutto in un paese dove l’etichetta e l’apparenza hanno un grande peso e un valore sociale molto forte. Al contrario, questi caratteri hanno ottenuto i favori di una parte di popolazione che guardava al movimento come a una via di fuga dai modelli e dalle aspettative dominanti.
È da considerare inoltre che la lunga tradizione di cross-dressing in varie forme di entertainment autoctono, dal teatro alla danza, e l’ideale estetico maschile del bishōnen, radicato in Giappone fin dall’antichità e in un certo senso incarnato dalle figure androgine che animano il movimento, hanno facilitato l’accettazione da parte del pubblico rispetto a quanto potrebbe avvenire in Europa o in America, dove si tende a identificare l’androginia con l’ambiguità sessuale. Sono dunque vari i fattori che hanno permesso la nascita e la diffusione del genere in Giappone e, anche dopo la fine del boom degli anni ‘90, il visual kei non si è estinto, ma, dopo essere tornato a rappresentare un genere di nicchia per un paio d’anni, dal 2004, ha iniziato a dare segni di un imminente, se non già avvenuto, ritorno sulla scena, con gruppi come the GazettE, NIGHTMARE, SID, An Café e VERSAILLES. Inoltre, con l’ingresso nel nuovo millennio e la diffusione a livello globale di internet e dell’interesse per le culture dell’Asia, il visual kei ha ottenuto una discreta attenzione da parte dei media stranieri, interessati alle figure esotiche dei giovani cosplayer delle band, fino a diventare uno dei tanti volti del cool Japan.
Fonti:
ICHIKAWA Tetsushi, “Nihonjin ga yōgaku konpurekkusu kara yōyaku kaihō sareta, rekishitekina shunkan” (Il momento storico in cui i giapponesi si sono liberati dal complesso nei confronti della musica occidentale), Ongakushi ga kakanai Jpoppu hihyō, vol. 27, 28 luglio 2003, pp. 70-73.
INAMASU Tatsuo, “Naze ima <vijuaru kei> nanoka.” (Perché ora c’è il visual kei?), Ushio, vol. 475, settembre 1998, pp. 166-170.
INOUE Takako (a cura di), Vijuaru kei no jidai – rokku, keshō, jendā (L’era del visual kei – rock, trucco e gender),Tōkyō, Seikyūsha, luglio 2003.
KASHIWAGI Yasunori, “Poppu karuchā to shite no vijuaru kei no rekishi” (The History of Visual-kei as Pop Culture), Chiba keizai daigaku tanki daigakubu kenkyū kiyō, vol.7, 2011, pp. 84-100.
KOIZUMI Kyōko, SUZUKI Yūko, “Vijuaru kei kosupure – mohō to kopī no shintai gihō” (Cosplay visual kei – tecniche corporee di copia e imitazione), in NARUMI Hiroshi (a cura di), Kosupure suru shakai – sabukaruchā no shintai bunka (La società che fa cosplay – la cultura del corpo nelle sottoculture), Tōkyō, Serika shobō, 2009, pp. 56-83.
“Shinjidai ni totsunyū! Neo vijuaru kei bando taitou no kizashi” (Stiamo entrando in una nuova era! I segni della crescente fama delle bandneo visual kei), Oricon Style, 7 giugno 2006; http://www.oricon.co.jp/news/music/23842/full/.
[1] Canzoni popolari giapponesi il cui canto incentrato su tecniche autoctone è supportato da un accompagnamento musicale occidentale. Sviluppatesi in periodo Shōwa (1926-1989), vengono considerate la base da cui si sono evoluti il J-pop (Japanese pop) e i suoi vari sottogeneri.