Il regista Mori Tatsuya arriva al FEFF22 con un nuovo documentario incentrato sulla figura di Mochizuki Isoko, giornalista di spicco del Tokyo Shinbun, diventata famosa in Giappone per la sua tenacia e persistenza.
i -Documentary of the Journalist- (i -Shinbun Kisha Dokyumento- i-新聞記者ドキュメント- ) è l’ultimo lavoro di Mori Tatsuya, regista famoso in Giappone per i suoi documentari sui temi di attualità più “scottanti” come A (Ē エー), il documentario del 1998 sul movimento religioso Aum Shinrikyō. In questa nuova pellicola, Mori segue la famosa giornalista Mochizuki Isoko ed esplora il tema della libertà di stampa e l’ambiente del giornalismo in Giappone.
La proiezione ufficiale è stata preceduta da un breve incontro in diretta streaming su Zoom dove il regista e la giornalista hanno dialogato con il reporter italiano Pio d’Emilia (inviato di SkyTG24, residente da anni in Giappone e in Asia) e con l’esperto e critico di cinema giapponese Mark Schilling.
Chi non ha familiarità con il mondo del giornalismo nipponico potrebbe considerare strana la scelta di un tema simile per un documentario, soprattutto tenendo conto dell’immagine che il Giappone dà di sé all’estero. In realtà, nonostante sia a tutti gli effetti un paese democratico dove i giornalisti non subiscono violenze e abusi e sono ufficialmente liberi di scrivere e pubblicare, il Giappone si è posizionato al 67esimo posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa compilata da Reporters Without Borders, più di venti posizioni sotto l’Italia. La situazione è quindi più complicata di quello che possa sembrare dall’esterno, e l’ultimo lavoro di Mori fa luce su un aspetto spesso poco considerato della società giapponese.
Nelle prime scene vengono introdotti la figura di Mochizuki e il suo lavoro, fatto di viaggi a notte fonda o all’alba, di conferenze stampa, di ricerca sul campo. La vediamo arrivare a Okinawa, nella baia di Henoko, dove i residenti protestano contro i lavori per il trasferimento della base di Futenma che mettono a rischio quel tratto di costa e il suo delicato ecosistema. Subito dopo vediamo lo spezzone di una conferenza stampa con Suga Yoshihide, il Capo di Gabinetto del Primo Ministro giapponese, durante la quale Mochizuki, con dati e foto alla mano, chiede insistentemente delle risposte sulla conformità di questi lavori. Ma riceve solo risposte elusive.
Mochizuki Isoko è una giornalista, e come giornalista fa delle domande. Molte domande. Può sembrare scontato, ma in Giappone questo è bastato perché diventasse una delle figure più discusse dai media: nell’ambiente giornalistico nipponico, infatti, c’è una regola non scritta secondo la quale i reporter evitano di insistere con le domande e in cambio il governo rende accessibili i dati richiesti attraverso conferenze stampa organizzate appositamente.
È per questo che la tenacia e determinazione di Mochizuki sono saltate subito all’occhio. La giornalista è stata oggetto di molte critiche, sia da parte di membri dell’amministrazione che di colleghi, altre testate, e comuni cittadini. In una scena in particolare, durante una conferenza stampa un ministro l’apostrofa esplicitamente: “Lei è quella che insiste particolarmente nei briefing con Suga, vero? Di solito i giornalisti non monopolizzano la scena così. Nella nostra cultura non si fa”.
“Si è mai sentita minacciata?” le chiede a un certo punto Mori. Sì, risponde lei, soprattutto dagli attivisti di estrema destra. La maggior parte scrive solo commenti sui social media, ma c’è stato anche qualcuno che ha telefonato anonimamente alla redazione del Tokyo Shinbun, minacciando di ucciderla. “Però la situazione è migliorata molto da quando mi hanno proibito di fare più di due domande per conferenza stampa”, aggiunge.
Proprio così: dopo varie occasioni in cui Mochizuki continuava a fare pressione sul Capo di Gabinetto per avere delle risposte, gli organizzatori le hanno imposto un limite di due domande. Ma il “contrattacco” non si è limitato a questo: la giornalista, infatti, veniva (e viene ancora) interrotta anche tre o quattro volte di seguito nei novanta secondi che ha a disposizione per rivolgere la sua domanda; e, visto che neanche questo è riuscita a farla desistere, qualche giorno dopo è stato promulgato un comunicato ufficiale in cui veniva chiesto che “un certo membro di una testata giornalistica” smettesse di chiedere insistentemente risposte a domande “che non rispecchiano i fatti reali”.
Tutto questo può sembrare assurdo: non è forse il lavoro di un reporter fare delle domande, e insistere fino a quando non ottiene delle risposte? È quello che si chiede anche il regista all’inizio del documentario, prima di mostrarci quello che accade davvero nell’ambiente giornalistico nipponico.
Essere un giornalista in Giappone, infatti, è un po’ diverso dall’esserlo in Italia. Non esiste un’associazione di categoria equivalente al nostro Ordine, e i tesserini che attestano l’attività di reporter sono rilasciati dalle singole testate, a cui sono legati. Come ha spiegato anche Pio d’Emilia nell’incontro in diretta, questo vuol dire che se un giornalista viene licenziato perde automaticamente il tesserino e l’ingresso alle conferenze stampa del governo. È quindi molto difficile lavorare come freelance, o per testate non riconosciute come quotidiani online e magazine.
Inoltre, un’ulteriore ostacolo è l’esistenza di quelli che in Giappone vengono chiamati kisha club (記者クラブ), ovvero dei “club dei giornalisti”. Ognuna di queste associazioni organizza conferenze stampa con un determinato ramo del governo o con un certo gruppo bancario o industriale, e chi non è membro del club non può accedere in nessun modo. Questo sistema nel documentario viene mostrato esplicitamente: Mori, infatti, sin dall’inizio esprime il suo desiderio di riprendere Mochizuki mentre è “in azione” durante una delle conferenze stampa del Capo di Gabinetto, ma viene fermato al cancello del palazzo che ospita l’ufficio del Primo Ministro. Il regista non si arrende, e prova in tutti i modi a ottenere l’accesso come reporter indipendente, ma senza risultati: è impossibile assistere ai press briefing del Capo di Gabinetto senza essere membro dei kisha club che li organizzano, ma allo stesso tempo anche entrare a fare parte di uno di questi club sembra essere impossibile.
Sebbene a volte possa essere complicato da seguire per chi non conosce bene la situazione politica e le ultime notizie di attualità in Giappone, il documentario offre un’ottima visione d’insieme dell’ambiente giornalistico nipponico, evidenziando gli ostacoli che i reporter sono costretti ad affrontare e che spesso impediscono loro di svolgere al meglio il loro lavoro. Nonostante sia denso di informazioni, il ritmo serrato della narrazione e il carisma di Mochizuki Isoko trascinano lo spettatore in un’immersione in questo aspetto della società giapponese che è poco noto all’estero, rendendo il documentario un’opera utile per informarsi e capire al meglio la situazione reale del giornalismo e della libertà di stampa in Giappone.