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Viaggio nel gekiga: le origini del fumetto underground che svela il Giappone ai margini

28 Aprile 2018
Matteo Papagna

Tra gli anni ‘50 e ‘60, un gruppo di autori ai margini dell’industria del fumetto giapponese si ribella alle convenzioni e crea un nuovo modo di raccontare storie, dando voce a un mondo troppo spesso dimenticato.

Si trattava dei pionieri del gekiga, una corrente underground del fumetto giapponese che racchiude in sé lavori di generi e stili molto diversi tra loro: dai drammi storici sulle vicende di samurai e ninja del genere jidaigeki, ai lavori di stampo noir, fino a forme di narrazione vicine al neo-realismo.

Il termine gekiga 劇画, che significa letteralmente ‘immagini drammatiche’ in opposizione a manga 漫画, che significa invece ‘immagini divertenti’, venne coniato da Tatsumi Yoshihiro (辰巳ヨシヒロ, 1935 – 2015) nel 1957. Come è facile intuire, la parola racchiude una forte rivendicazione, quasi a voler recuperare al medium del fumetto (che nel dopoguerra viveva, in Giappone come in America, il suo primo vero periodo d’oro) una dignità artistica, una capacità di raccontare storie mature e importanti e non solo di intrattenimento; un’operazione simile a quella compiuta dai fumettisti americani con la definizione di graphic novel, ma ancora più rilevante considerato che la anticipa di due decenni (l’invenzione del termine graphic novel risale al ’74, a opera di Will Eisner).

All’epoca, negli anni ‘50, il mercato del fumetto giapponese era dominato dalla produzione delle case editrici di Tokyo, costituita per lo più da storie di immaginario fantastico per bambini e ragazzi, pregne di valori edificanti e dalla grafica stilizzata, non troppo dissimile da quella Disney. Tra tutti gli autori spicca Tezuka Osamu (手塚治虫, il ‘dio del manga’), i cui lavori, tra i quali Astroboy del ‘52, hanno contribuito in larga misura a creare il canone del manga. Considerato il pubblico di riferimento di quell’industria culturale, non c’era dunque molto spazio per chi avesse voluto cimentarsi con tematiche più mature, che includessero ad esempio la sessualità, la violenza o anche una semplice ambientazione più realistica e quotidiana. Fu il mercato delle librerie a prestito, diffuso soprattutto a Osaka (considerata la seconda capitale, da sempre centro culturale alternativo che fa da contraltare al mainstream di Tokyo), a dare loro uno sbocco: si trattava di librerie dove i manga venivano dati a noleggio a un prezzo molto basso, per favorire i lettori provenienti dalle classi sociali più basse. Gli editori che pubblicavano in questa catena di distribuzione erano molto più tolleranti dei loro equivalenti commerciali, e questo permise un fiorire di sperimentazioni, sia a livello narrativo che grafico.

È in questo contesto che Tatsumi pubblica nel ‘56 Tormenta nera (Kuroi fubuki 黒い吹雪, edito in Italia da Bao Publishing), considerato il capostipite del genere. Si tratta di un’opera innovativa su tutti i piani: apparentemente è una storia noir abbastanza tipica, incentrata sulla fuga da un treno di due prigionieri accusati di omicidio, ammanettati l’uno all’altro, durante una tormenta. Ma la crudezza con cui la vicenda viene raccontata svela una riflessione sugli ambienti sociali più emarginati – in questo caso quello circense – nei quali alberga una violenza silenziosa e pervasiva, in cui non ci sono ‘buoni e cattivi’, ma soltanto vittime che diventano carnefici. Anche il disegno, sebbene ancora immaturo, presenta un’inedita impostazione cinematografica, quasi rivoluzionaria nell’attenzione ai dettagli e allo sviluppo cinetico delle vignette.

Lo stile cinematico di Tatsumi

“Uno: Maggior realismo nella rappresentazione e nelle psicologie dei personaggi. Due: accentuazione della componente drammatica. Tre: esclusione o riduzione drastica di quella umoristica. Quattro: ricerca di un target non più di bambini ma di giovani e adulti”

Così Tatsumi sintetizza le regole del gekiga: cerca di popolarizzare il termine che aveva coniato formando un colletivo di autori che ebbe vita breve, ma nel frattempo la sua definizione si stava via via diffondendo; il vero consolidamento del genere avvenne solo nel ‘64, con la nascita della seminale rivista Garo ガロ. A fondarla fu un altro dei pionieri del gekiga, Shirato Sanpei (白土 三平, classe 1932), principalmente per pubblicare il suo lavoro Kamuiden (カムイ伝, di cui in Italia è stato pubblicato solo l’adattamento animato col titolo L’invincibile ninja Kamui, trasmesso negli anni ‘80 su Rete4). È un jidai-gekiga ambientato in epoca Edo, il Giappone feudale del 18-19esimo secolo; il protagonista Kamui è un ninja reietto che attraversa un mondo funestato dalla povertà e dalle ingiustizie del sistema feudale. A rendere popolare la serie contribuì l’impostazione vicina alla critica sociale e all’analisi marxista, che Shirato eredita dal padre (pittore del movimento proletario) e che lo rese un beniamino dei movimenti di sinistra.

Un numero di Garo con Kamuiden in copertina

Il successo di Kamui portò Garo alla straordinaria tiratura di 80000 copie. Ciò permise a Shirato di raccogliere intorno a sé gli altri fumettisti gekiga, tra cui il già citato Tatsumi, Tsuge Yoshiharu (つげ義春, 1937) e il fratello minore di questi, Tsuge Tadao (つげ忠男, 1941).

Gli Tsuge sono stati fondatori e maestri indiscussi del watakushi manga 私漫画, il fumetto dell’io, di carattere autobiografico e impostazione neo-realista. Personaggi schivi e tormentati, le loro vite meriterebbero un capitolo a parte: l’infanzia travagliata in balia di un patrigno alcolizzato e un nonno violento è raccontata in maniera tagliente da Tadao in Ode a Shōwa (pubblicato nella raccolta Trash Market, per Oblomov Edizioni). Tadao, ancora oggi in attività, si trovò costretto a disegnare manga nel tempo libero avendo lavorato per anni come operaio in una ‘banca del sangue’ (una losca industria farmaceutica che acquistava plasma dai reietti della società, dei quali ci da un amaro ma divertente ritratto in Trash Market sempre nell’omonima raccolta), dove finì per contrarre l’epatite C.

Yoshiharu fu assistente di Mizuki Shigeru (水木しげる, 1922 – 2015, autore del famosissimo Kitaro dei cimiteri), dal quale mutuò l’attenzione per il realismo degli sfondi e delle ambientazioni. Con la pubblicazione su Garo del suo Nejishiki (ねじ式, traducibile con ‘Stile a vite’), nel 1968, travalica il realismo per aprirsi a una dimensione onirica che ispirerà le generazioni successive. Dopo un tentato suicidio e una carriera altalenante costellata da ripetute pause e fasi di allontanamento dal mondo del manga come descritto nello struggente L’uomo senza talento (Munō no hito 無能の人, Canicola edizioni), si ritirò definitivamente negli anni ‘80.

Il gekiga nasce a metà del periodo Shōwa (1926 – 1989, corrispondente al regno dell’imperatore Hirohito), in anni cioè segnati da una continua imposizione di modelli culturali: prima con l’ultra-nazionalismo degli anni ‘30, poi con l’occupazione americana nel dopoguerra. A fare da trait d’union tra questi autori così diversi tra loro contribuì la necessità comune, avvertita con forza nel Giappone postbellico, di ricostruire un’identità culturale, e la convinzione che per farlo non ci si poteva affidare ai modelli omologanti dell’industria culturale, ma bisognava invece scavare tra le macerie dei bombardamenti, nei bassifondi delle città, nelle vite delle persone più umili: solo lì albergava la verità.

Una scena da ‘Trash Market’ di Tadao Tsuge

 “La cosa più importante per me è descrivere la gente così com’è, nella sua realtà” Tsuge Tadao

Alla ricerca di una nuova chiave di lettura della realtà nel dilagante caos identitario, gli autori del gekiga hanno raccolto l’eredità di molteplici esperienze letterarie e culturali dei decenni precedenti, dagli scrittori naturalisti del romanzo dell’io (lo shishōsetsu 私小説) alla scuola decadente del buraiha 無頼派, al noir di Edogawa Ranpo 江戸川乱歩; inevitabile fu il confronto anche con l’occidente, specialmente attraverso il cinema con il boom della nouvelle vague.

“Lo sviluppo del gekiga, per come ci viene raccontato, non può essere inquadrato in una scuola o in una corrente: molto diversificate appaiono le opere […] Nonostante questa eterogeneità, è comune il messaggio anticonformista e provocatorio.” scrive Juan Scassa nella postfazione alla raccolta di Tatsumi Città arida (Kawaita machi 渇いた街, Coconino Press – Fandango).

Parte del successo di Garo e del gekiga fu dovuta alla capacità dei suoi autori di rispondere alle esigenze di una generazione di lettori cresciuta con i manga per bambini negli anni ‘50, ma ormai diventata adulta e alle prese con la stagione delle contestazioni politiche, tra cui quelle contro il Trattato di Mutua Cooperazione con gli USA, che scossero il Giappone a più riprese tra il ‘60 e il ‘68. Certo, la partecipazione di molti autori è stata marginale: è lo stesso Tsuge Tadao a ricordare come il sindacato obligasse lui e i colleghi della banca del sangue a partecipare alle manifestazioni nonostante il loro scarso interesse. E di fatto il pubblico del gekiga restò sempre fedelissimo ma poco numeroso, ma la capacità di raccontare le storie di quelli che vivevano ai margini della società Giapponese, che li accomuna a scrittori e intellettuali loro contemporanei del calibro di Ōe Kenzaburo (大江健三郎, premio Nobel per la letteratura nel 1994) lasciò un’impronta indelebile sulle successive generazioni di mangaka – lo stesso Tezuka ne fu ispirato nelle sue produzioni più tarde.

Tant’è che il gekiga ha influenzato una buona parte della produzione di seinen manga (青年漫画, manga per adulti) negli anni ‘70 e ‘80. Giusto per citare alcuni titoli di recente pubblicazione in Italia, ricordiamo Kamimura Kazuo (上村一夫, 1940 – 1986) con L’età della convivenza (同棲時代, edito da J-Pop), Seiichi Hayashi (静一林, classe 1945) con Elegia in rosso (赤色エレジー, Coconino Press – Fandango), Suehiro Maruo (丸尾末広, 1956) con Midori – la ragazza delle camelie (少女椿, sempre per Coconino Press).

Grazie all’impegno di traduttori ed editori, negli ultimi anni sempre più titoli del gekiga stanno riaffiorando dagli scaffali delle biblioteche giapponesi per arrivare anche in Italia, regalandoci la possibilità di conoscere uno spaccato del Giappone più underground.

Al Giappone a-tipico, e quindi anche al gekiga, NipPop ha deciso di dedicare l’edizione del festival di quest’anno, nella convinzione che queste opere siano un documento di rara importanza per entrare in contatto con una cultura sempre troppo lontana.

Saremo felici di ospitare, tra gli altri, Paolo La Marca e Vincenzo Filosa, traduttori e curatori di Gekiga, la collana di Coconino Press dedicata al gekiga, e la mangaka Uchida Shungicu, della quale sempre Coconino Press sta per pubblicare La fidanzata di Minami (南くんの恋人).

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