Michele Botton e Pietro Sartori esplorano con una biografia a fumetti il lato umano della vicenda di cronaca nera più famosa del Giappone anteguerra: quella di Abe Sada, geisha e prostituta che uccise l’amante e ne mutilò i genitali.
Accingendomi a leggere Abe Sada, il fiore osceno (biografia a fumetti, ed. Becco Giallo, pagine 127, €18), mi chiedevo come due fumettisti italiani, i giovanissimi Michele Botton alla sceneggiatura e Pietro Sartori ai disegni, avrebbero affrontato una vita celebre come quella di Abe Sada, che è già stata al centro di numerose opere, tra romanzi, film e biografie. Mi aspettavo una resa grafica scioccante, magari qualche tavola scabrosamente erotica, e invece mi sono trovato davanti a una ricostruzione storica appassionata ma lucida, che mi ha fatto riflettere su quanto le mie aspettative fossero influenzate dalla carica simbolica che il personaggio si porta dietro. Ma sto bruciando le tappe, andiamo per ordine. Chi era Abe Sada?
Nel maggio del 1936, il Giappone fu sconvolto dalla notizia di un omicidio così macabro da diventare un caso nazionale. Un’ex-prostituta ed ex-geisha che lavorava come apprendista in un ristorante, aveva strangolato nel sonno il suo amante nonché datore di lavoro, Ishida Kichizō, e aveva poi asportato i genitali dal cadavere. Il nome di quella donna era Abe Sada, ed era destinato a entrare nella storia. L’omicidio arrivava al culmine di una serie di fughe amorose che duravano anche settimane, durante le quali i due si dedicavano a rapporti sessuali ininterrotti e a pratiche erotiche estreme, soffocandosi a vicenda durante il coito. Dopo il misfatto, Abe Sada si diede alla fuga. Prima della sua cattura passarono due giorni, durante i quali si diffuse un’isteria collettiva, alimentata dai neonati mass-media, con segnalazioni e avvistamenti dell’assassina in tutto il paese.
Il processo che seguì restò al centro dell’attenzione a lungo, e Abe Sada divenne a tutti gli effetti un personaggio pubblico. Sono state avanzate molte ipotesi sulle ragioni dell’enorme successo (se così possiamo chiamarlo) della sua storia. Una delle più plausibili è che i giapponesi, all’epoca, avevano un fortissimo bisogno di distrazione. Il paese usciva da una sconvolgente serie di eventi funesti: il Grande Terremoto del Kantō, che aveva devastato Tokyo nel ’23, la crisi del ’29, che aveva messo in ginocchio i ceti proletari, il conflitto in Cina e Manciuria, e poi una lunghissima serie di attentati perpetrati da sette segrete interne alle forze armate, che cospiravano per prendere il controllo del governo. Il processo ad Abe Sada sarebbe quindi stato l’occasione per un momento di catarsi collettiva.
Un'altra considerazione che si può fare riguarda il mutamento che aveva interessato in quegli anni i costumi. Il culto dell’edonismo, fiorito in epoca Edo ma rimasto rigidamente confinato ai quartieri di piacere sotto l’egida dei Tokugawa, si era diffuso fra i nuovi ceti urbani; al contempo l’introduzione in chiave nazionalista di una morale rigida aveva ridefinito una stretta sfera di “normalità” ed etichettato come perverso tutto quello che ne esulava. Si era così creato nel desiderio quello che potremmo definire un cortocircuito che lo rendeva grottesco: desiderio dell’inconsueto e del proibito. Non a caso, l’immaginario popolare del tempo era dominato dall’estetica ero-guro, unione di erotico e grottesco, che in Abe Sada trovò una perfetta quanto involontaria musa.
Una foto di Abe Saba al momento dell'arresto
Abe Sada è divenuta così il simbolo di un’epoca, quella dell’imperialismo nipponico, o un’icona della resistenza allo stesso. La sua vicenda ha ispirato innumerevoli scrittori, artisti e filosofi, primo su tutti il maestro della nouvelle vague giapponese Nagisa Ōshima, che nel celebre e scandaloso film del 1976, Ecco l’impero dei sensi, sovrappose le immagini dello strangolamento perpetrato durante l’orgasmo a quella delle truppe imperiali che marciano verso la Manciuria, in un allegorico matrimonio di eros e thanatos. Così, la sua fama le è sopravvissuta e si è ingigantita, tanto che è difficile pensare la sua vicenda fuori da queste cornici interpretative. Si rischia così di dimenticare che Abe Sada era una donna, prima che un simbolo.
Il lavoro di Michele Botton e Pietro Sartori sembra invece provare a restituirle la sua umanità. In primis, dandole la parola: la voce narrante è la sua, che racconta la propria sfortunata vita in un lungo flashback, attraverso l’uso generoso delle didascalie. Poi, attraverso il disegno, dal taglio realistico, quasi sommesso, pregevole nelle ricostruzioni degli interni e dei costumi d’epoca (traspare un evidente lavoro di ricerca) e mai straniante nelle scelte grafiche: dalla delicata palette di colori pastello alla scansione delle vignette quasi sempre regolare. Le scene più estreme della storia, dove anche i disegni si fanno più aggressivi nei colori e nel dinamismo, occupano poche tavole, contrariamente alle aspettative.
Ampio spazio viene dato all’infanzia e alla giovinezza di Abe Sada e alle circostanze che la portarono a lavorare come prostituta. Circostanze che, senza scendere nei dettagli, diventano lo spunto per una tagliente analisi della condizione femminile del tempo. Infatti, nel Giappone del primo Novecento, essere donna voleva dire soprattutto dover sottostare a severe aspettative sociali, declinate nell’ideologia del ryōsai kenbo. Questo slogan traducibile come “buona moglie, saggia madre” lascia bene intendere il ruolo sottomesso riservato alle donne che andavano spose, e le alternative al matrimonio non erano molte. L’amore romantico, va da sé, era un sogno irraggiungibile per la maggior parte delle donne. Proprio in quegli anni si intravedeva l’inizio di un lento cambiamento, facevano capolino modelli di femminilità più indipendente sul piano lavorativo e sentimentale, e nascevano le prime esperienze femministe, anche radicali. Ma tante donne, come Abe Sada, non ebbero la possibilità o la libertà di decidere il corso della propria vita. Forse, si può rintracciare la motivazione del suo folle gesto se lo pensiamo come quello di una donna alla quale è impedito amare.
Difficile non percepire una certa simpatia da parte degli autori nei confronti del personaggio, ed è giusto che sia così, altrimenti come si potrebbe raccontare una storia con passione? C’era il rischio di ricadere nell’ennesima sovrainterpretazione e trasformare Abe Sada in un’impropria icona di emancipazione femminile, ma Botton e Sartori riescono a evitare pretese di universalità. Lo fanno anche rimettendo in discussione la validità stessa della narrazione biografica: vale ancora la pena di raccontare una vita sulla quale ormai si sono stratificati così tanti significati che trascendono le intenzioni di chi l’ha vissuta? Per gli autori, ovviamente, la risposta è sì, a patto di mettere al centro dell’attenzione la persona e i suoi sentimenti, così come pure i suoi dubbi e i suoi sensi di colpa, e non l’evento che l’ha resa tristemente famosa. Se non conoscete la storia, o se non avete mai approfondito questa figura al di là dell’omicidio, Abe Sada, il fiore osceno ne offre un ritratto completo e un interessante viaggio nei costumi dell’epoca.