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Francesca Scotti racconta Murakami Takashi

2 Ottobre 2014
Francesca Scotti

Coloratissimo, paradossale, fantascientifico, fumettoso, pop sono alcune delle definizioni che, solitamente, vengono utilizzate per presentare al pubblico l’arte di Takashi Murakami

Devo ammettere che quasi nessuno di questi termini, affiancati a qualche immagine vista in rete, avevano solleticato la mia curiosità per il mondo superflat creato dall’artista tokyoita. E invece, appensa superata la soglia della Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, a Milano, che ha ospitato una sua esposizione fino al 7 settembre, ho scoperto quanto di quell’universo mi fosse in realtà piacevolmente e follemente familiare. Di più: quanto rappresentasse una sapiente miscela di aspetti tradizionali, contemporanei, religiosi e fiabeschi in grado di catturarmi.

I riflessi metallici della scultura ‘Oval Buddha Silver’, primo incontro del percorso espositivo, sembravano voler sintonizzare il visitatore su una frequenza che lo accompagnerà lungo tutta l’avventura. “Oval Buddha Silver” è una figura emblematica dell'universo di Murakami, porta con sè la cura per il dettaglio e l’ambiguità: ha due volti, uno meditativo con la bocca di una rana e un pizzetto (L’artista? L’Imperatore?) e un secondo, inizialmente celato all’ospite, terrificante, con i denti aguzzi di un pescecane. L’argenteo Buddha vibra come un diapason nella stanza e nell’immaginario.

Con questa eco nei pensieri si approda da ‘Arhat’ (che in sanscrito significa “essere che ha raggiunto l’illuminazione”): tre dipinti di grande formato, tra i 5 e i 10 metri di lunghezza, germogliati sulle macerie del devastante terremoto che ha colpito il Giappone nel 2011. Le immagini rappresentate sembrano attingere a un patrimonio antico, a quello delle vicende dei monaci buddisti che si trovano ad affrontare il declino e la morte. I paesaggi, nella loro tavolozza accesa e psichedelica, lasciano intendere come la Natura e la sua indomabilità possano tutto nei confronti del progresso tecnologico creato dall’uomo. Creature demoniache, mostri fantastici, simboli religiosi affiancano vecchi monaci che indossano i paramenti tradizionali.

Le ferite inferte dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale sulla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, lasciate volutamente visibili dai restauri, si accordano perfettamente con gli squarci provocati – nei luoghi e nelle pesone – dal terremoto del Tohoku, con i quali Murakami dialoga attraverso il ciclo di Arhat. Anzi, paiono ribadire i connotati universali del dolore.

Alcuni autoritratti dell’artista, frutto di ricerche più o meno giocose che Murakami ha condotto sulla propria immagine, precedono l’ultima serie di dipinti realizzati appositamente per l’esposizione: teschietti di ogni colore si sovrappongono uno all’altro come fossero sgorgati da una cascata. I connotati macabri dell’immagine sono però completamente cancellati dalle tinte luminose e dalle forme intenerite, “carine” delle scatole craniche.

Non è un’esposizione ampia ma di grande ricchezza. La curiosità per il dettaglio mi fa tornare da Arhat e a ogni sguardo scopro nuovi occhi e nuove creature.

Ora che, finalmente, ho assaggiato Murakami ne voglio ancora.

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