Tokyo, 1963. Allora come oggi, fervono i preparativi per le Olimpiadi: sono gli anni del boom economico, delle grandi costruzioni, della rinascita postbellica, delle luci scintillanti della metropoli che attirano lavoratori da ogni parte del Giappone, abbagliati dalle possibilità infinite che la capitale sembra offrire. A differenza di altri, Kazu non sogna il riscatto sociale: vuole solo sfamare la propria famiglia, rimasta nel lontano Tōhoku. Ma come tanti altri suoi concittadini, vivrà sulla propria pelle la miseria che si cela nelle ombre e nei vicoli di una delle più grandi metropoli del mondo.
Tokyo. Stazione – Ueno (in giapponese JR Ueno eki kōen guchiJR上野駅公園口) di Yū Miri parte proprio da là, dalla stazione nord-est di Tokyo, una delle tante fermate dell’affollatissima linea Yamanote, che lo stesso protagonista chiama “la porta d’accesso alle regioni del Nord”: il primo incontro-scontro dei lavoratori arrivati dal Tōhoku con la realtà metropolitana e dimora abituale di numerosi senzatetto, che vivono alla giornata e di quello che riescono a trovare. Frammentaria e claustrofobica, la narrazione si struttura come un lungo viaggio del protagonista nei propri ricordi che, come dice lui stesso, lo tengono ancorato all’esistenza in quello che non è più un vivere o un sopravvivere, ma semplicemente un esistere.
La propria infanzia, la miseria della povertà nel piccolo villaggio di Soma, la sofferenza per non essere stato vicino ai propri figli, la realtà straniante della metropoli, i suoni dei cantieri, lo spettro della tragedia di Fukushima. La vita privata della famiglia del protagonista si incrocia, per un brutale scherzo del destino, con momenti particolari della storia giapponese e gli eventi si susseguono senza soluzione di continuità nella mente di Kazu – che viene chiamato per nome solo pochissime volte nel romanzo – fino alla lenta e inesorabile presa di coscienza della propria condizione, coronamento ultimo della futilità della vita:
I suoni, i panorami, gli odori, ogni cosa si mescola e gradualmente si va attenuando, a poco a poco si rimpicciolisce, e ho persino l’impressione che, se allungassi le dita, tutto svanirebbe, ma non ho dita per toccare.
Non posso toccare e non posso neanche sovrapporre una mano all’altra.
Quando non esisti, non puoi sparire.
Sradicato dalla propria terra natia, a Kazu come ai senzatetto di Ueno – condizione che non risparmia nessuno: intellettuali, insegnanti, poveri, ricchi – non restano legami o affetti umani, e la loro unica possibilità è guardare al passato, verso la dimensione della memoria, la sola dove possono dire di essere realmente esistiti.
Autrice zainichi (在日 termine usato per indicare individui di etnia sudcoreana ma nati e cresciuti in Giappone) che ha vissuto in prima persona la discriminazione che deriva dall’essere considerato straniero, Yū Miri si sofferma spesso sulla narrazione dei poveri, degli invisibili, dei senzatetto che facciamo finta di non vedere ai lati delle strade, testimoniando l’esistenza di chi, come Kazu, non ha più una voce per parlare. Sradicati dalle proprie terre natie per la gloria della capitale e della reputazione della Nazione agli occhi dell’Occidente. L’autrice denuncia l’apparato olimpico che, come un enorme mostro burocratico, ha risucchiato l’umanità delle persone per poi sputarle e abbandonarle al ciglio delle strade: pubblicato nel 2014, a cinquanta anni dalla prima Olimpiade in Giappone e a solo tre anni dalla tragedia di Fukushima che rimane tuttora una ferita dolorosa e viva per il paese, il romanzo è oggi ancora più attuale che mai durante le Olimpiadi 2020, una delle edizioni più controverse di sempre. Rendendo visibile la storia degli invisibili, Yū Miri ci sfida a guardare in faccia e a trovare significato in un apparato olimpico dalle tinte ormai distopiche, nell’insistenza su un’edizione in mezzo a una pandemia globale dove i contagi a Tokyo sono in rapido aumento, nell’ipocrisia di coloro che danno la priorità a interessi miliardari a scapito della salute delle persone, in uno spreco di risorse che neanche la popolazione sembra più vedere con favore da tempo. Per un brutale scherzo del destino, spietato e inesorabile come la pioggia che cade incessante durante tutta la narrazione, la tragedia di Kazu sembra destinata a ripetersi, simbolo dell’assenza di sicurezze e di significato propria dell’esistenza umana moderna.
Pensavo che una volta morto avrei rincontrato le persone morte. Pensavo che avrei potuto vedere da vicino coloro che se n’erano andati molto lontano, che avrei potuto toccarli e sentire la loro presenza in qualunque momento.
Pensavo che una volta morto avrei compreso qualcosa.
Che in quell’istante avrei afferrato il significato del vivere e quello del morire.
In maniera nitida, come quando la nebbia si dirada…