La cartella del professore di Kawakami Hiromi: una storia d’amore tra i gusti del Giappone
– Nattō di tonno, frittelle di renkon, scalogni sotto sale, – ho ordinato mentre mi issavo su uno sgabello, e nello stesso momento il signore anziano accanto a me, che vedevo di schiena, ha detto: – Scalogni sotto sale, nattō di tonno, frittelle di renkon.
È il gusto il fil rouge della fragile storia d’amore che il romanzo La cartella del professore (Sensei non kaban, 2001), pubblicato da Einaudi nella traduzione di Antonietta Pastore, racconta. L’autrice, Kawakami Hiromi (1958-), affascina con il tratto fluido e lieve che da sempre rappresenta la cifra della sua scrittura; un umorismo sottile ed elegante nel quale stempera il magma delle passioni umane. Fin dal primo, fortuito incontro, dal quale la narrazione prende l’avvio, fra la protagonista Tsukiko, trentasettenne solitaria, e il suo antico professore di letteratura del liceo, sono profumi, sapori, colori, a guidarci. Riga dopo riga la storia si snoda nella realtà di un quotidiano metropolitano, eppure continuamente scivola in una dimensione altra, che su quello stesso quotidiano pare galleggiare.
I sapori della quotidianità
Una passeggiata al mercato di Minamimachi, fra le bancarelle di frutti di mare, gamberetti, piccoli granchi, dei quali riusciamo quasi a percepire il fresco profumo salmastro mescolato al pungente piccante del kimuchi. Una gita a Tochigi, per accompagnare il sopraggiungere dell’autunno, in cerca di funghi: kakishimeji, matsutake, shiitake, nomi da assaporare insieme a una coppa di sake. La cucina giapponese è per vocazione stagionale, e coltiva un rapporto molto stretto con il territorio: ogni regione, villaggio, quartiere ha una propria specialità. E allora ecco l’oden, la fumante zuppa invernale tipica del Kantō; il sake gustato all’ombra dei ciliegi in fiore; le trote alle soglie della stagione delle piogge.
Colore, profumo, forma titillano le papille e scandiscono lo scorrere dei giorni. I due protagonisti attraverso questa miriade di sensazioni gustative prendono vita l’uno allo sguardo dell’altro, ed entrambi a quello del lettore. Non solo, ma, parallelamente alla mappatura dei sapori, il romanzo disegna una cartografia immaginaria di Tōkyō. Una breve puntata a Kappabashi, un cinema a Yūrakuchō, la familiare nomiya davanti alla stazione. Un piccolo mondo sempre più evanescente sullo sfondo di una metropoli liquida e invasiva. In città, ho sempre l’impressione di essere sola, o al massimo in due, col professore. E sono convinta che vi si trovino soltanto degli esseri viventi molto grandi. Ma se facessi bene attenzione, di sicuro scoprirei di essere circondata anche lì da tante forme di vita.
Voci forti
Il dubbio che Kawakami strizzi l’occhio alle aspettative del pubblico non giapponese sorge. Tuttavia sono innegabili da un lato la grazia leggera, dall’altro la consonanza di temi e immagini che l’avvicina ad altre scrittrici contemporanee. Gli ultimi anni hanno visto crescere l’interesse per il coro di voci femminili che rappresentano una delle forze più vitali all’interno della letteratura giapponese contemporanea. Creative, ironiche, provocatorie, coraggiose, le donne si sono cimentate nei più svariati generi. Dal romanzo d’amore allo youth novel, dalla fiction storica al noir, fino al più recente fenomeno dei keitai shōsetsu, i “romanzi da cellulare”, scritti pigiando sui tasti dei moderni telefonini con connessione internet, e letti sui minuscoli schermi, dopo averli scaricati da appositi siti dedicati. Giovanissime, come Kanehara Hitomi, classe 1983, vincitrice a soli vent’anni, con il trasgressivo Serpenti e piercing (Hebi ni piasu, 2004), del prestigioso premio letterario intitolato ad Akutagawa; adulte, approdate alla scrittura dopo aver percorso altre strade come Taguchi Randy (1960-) o Kirino Natsuo (1951-).
Corpi e volti di donna
Pagina dopo pagina, sempre corpi e volti di donna: feriti, deformati dalla solitudine, ridotti a maschere grottesche, ma indomiti. Sullo sfondo Tōkyō, la città-non-stop, senza sonno, senza riposo. In primo piano adolescenti spezzate, quarantenni deluse, e passi che rimbombano nel vuoto di uno spazio architettonico e urbano sempre meno pensato per accoglierle: caffè anonimi, convenience stores desolatamente identici gli uni agli altri, marciapiedi deserti. Identità in bilico, che attraversano la metropoli e in essa cercano disperatamente di incidersi, di lasciare un segno, una traccia che condensi la loro esistenza. Corpi. Ai quali il cibo, che è gusto, olfatto, tatto, ricorda – nel bene e nel male – la propria materica fisicità. Negato nei corpi in fame di Kanehara; nauseabondo nella fabbrica di bentō dove lavorano le protagoniste del corrosivo Le quattro casalinghe di Tokyo (OUT, 1997) di Kirino; taumaturgico ne Il ristorante dell’amore ritrovato (Shokudō katatsumuri, 2008) dell’esordiente Ogawa Ito (1973-); poesia ne La cartella del professore.
(Paola Scrolavezza, da Alias, supplemento de Il Manifesto, 1-05-2011)