A volte ritornano… e così anche la vostra M.me Red torna talvolta a materializzarsi, preferibilmente sul fare dell’estate. Quando la calura si insinua impietosa nelle giornate assolate, cosa può esserci di meglio del refrigerio dato dalla lettura di un buon libro? Per le vostre settimane estive, dall’alto dei suoi irrinunciabili tacchi a spillo scarlatti, M.me Red vi consiglia Wa, l’ultimo libro firmato da Laura Imai Messina, edito da Vallardi. E ve lo racconta attraverso le parole della stessa autrice. Buona lettura!
M.me Red: A proposito del tuo ultimo libro, Wa, hai scritto che “è nato in sordina, come un ruscello che scorre sotterraneo per anni e, solo dopo una strenua preparazione e un lungo temprarsi, riesce a sfociare nel mare”: vuoi raccontarci qualcosa di più su come è nato e sulla tua ispirazione?
Laura Imai Messina: Wa è sempre stato nella mia testa, in una forma tuttavia declinata alla prima persona, senza titolo, mescolata agli avvenimenti che mi ispiravano l’analisi di una parola intorno a cui, di volta in volta, tessevo una narrazione non solo linguistica e culturale, ma strettamente personale. Ho aspettato più di dieci anni prima di sentirmi in grado di parlare del Giappone, adottando una più autorevole forma impersonale, e staccando quindi la materia dalla soggettività della letteratura (come in Tokyo orizzontale o in Non oso dire la gioia)o dell’autobiografia (il blog). E poi ad aprile, quando Pina è venuta in Giappone, per caso anche Marcella e Viola di Vallardi erano qui e, in una indimenticabile passeggiata da un’uscita a un’altra di Ochanomizu (indimenticabile anche perché ho smarrito in treno il cellulare di Ryōsuke), abbiamo chiacchierato: loro mi hanno parlato dell’idea di un libro che spiegasse il Giappone attraverso un numero imprecisato di parole, e io ho raccontato loro del mio blog che ho sempre curato come un libro e che è incentrato sul linguaggio. Ci siamo trovate subito, e nelle settimane successive, per la precisione da metà maggio a fine agosto, è nato Wa.
M.me Red: Come tu stessa hai ricordato, da anni tieni un blog molto seguito, e sono in tanti ad averti chiesto del rapporto tra la scrittura del blog e la narrativa: Wa rappresenta quindi l’anello di congiunzione?
Laura: Mi piace moltissimo questa tua definizione. Effettivamente, ora che mi ci fai pensare, è proprio così. La scrittura nasce molto prima del blog e tuttavia attraverso quest’ultimo sono riuscita a esplorare una maniera differente di comunicare. Abbreviare, massimizzare, ricevere un riscontro immediato dalla gente, confrontarmi con esso. E parlare del quotidiano giapponese, vincendo le resistenze all’abitudine, che tutto rende piatto e trasparente.
M.me Red: Wa, ovvero il Giappone, in 72 parole, tante quante sono le stagioni del Sol Levante. Uno dei tratti della tua scrittura che mi ha sempre colpito è il nitore del linguaggio, limpido eppure evocativo, frutto di un lavoro di cesello che non lascia spazio alla casualità né al superfluo. Quindi non stupisce che a scandire il ritmo di Wa siano proprio le parole: quale è il tuo rapporto tout court con il linguaggio? Con la sua forma e la sua musica?
Laura: Le parole mi paiono da sempre l’elemento più importante, nel senso che di un libro mi colpiscono al 90% la lingua e al 10% la storia. La trama stessa è per me insita nel linguaggio. Una lingua povera non è in grado di veicolare alcuna storia, neppure la più stupefacente. Mi trovo ad acquistare libri per via dell’ordito di una frase, cosa che non accade invece per altri dall’intreccio affascinante che però siano scritti con stile anonimo e banale. Del resto di veramente stupefacente, nelle nostre vite, non c’è nulla. Anche il romanzo più celebre e complesso lo si può riassumere nel plot, in poche righe. La lingua invece, se capace, dice a ogni paragrafo qualcosa; riempie di senso anche grazie alla descrizione scarna di un personaggio secondario.
Cosa, meglio di un numero imprecisato di parole, può raccontare una cultura? Cosa, più di nuove parole, è importante per far fronte alla vita?
M.me Red: Sono diversi anni ormai che hai scelto il Giappone come luogo non solo dell’anima: come ti ha cambiato e come è cambiato nel corso di questo tempo?
Laura: Micro-cambiamenti sono sempre in atto, ma forse quello che appare più dirompente è il carattere più internazionale che ha assunto il Giappone, la quantità sorprendente di stranieri che lo visitano e lo abitano. Mi pare che la distanza tra omote/ura si sia per certi versi inspessita (proprio per far fronte a questa piccola grande invasione di turisti) e per altri assottigliata (per via dell’assorbimento della cultura occidentale europea e nord-americana che non si è mai arrestata).
M.me Red: Oltre a essere una scrittrice di successo, sei una ricercatrice che si occupa di letteratura giapponese: la frequentazione della narrativa nipponica ha in qualche modo inciso sul tuo rapporto con la scrittura, e sul ritmo e la forma della tua narrativa?
Laura: Devo ammettere che in quest’ultimo anno, per via non solo del mutato (e aumentato) assetto familiare ma anche dell’impegno notevolmente accresciuto nella narrativa e nella saggistica, ho dovuto ridimensionare il mio lavoro di ricerca. Tuttavia la forma mentis resta quella. Leggere e analizzare tanta letteratura, mi sostiene nella scrittura e rigenera costantemente quelle domande fondamentali che uno scrittore a mio parere deve porsi: Perché scrivi? Esattamente cosa vuoi dire? Perché questa storia, questa frase, e non un’altra? Non leggo e non credo sarò mai in grado di leggere un libro solo per intrattenimento. Sono una annotatrice seriale, una accumulatrice di tracce. Il piacere della lettura risiede lì.
E poi, soprattutto, per me vale il detto “frequenta chi è meglio di te”. Leggere libri potenti, studiare i grandi significa esattamente questo.
M.me Red: Sempre a proposito di cultura giapponese, ma questa volta contemporanea, quale è secondo te il filo conduttore della letteratura degli ultimissimi anni? E cosa determina il successo crescente degli autori giapponesi all’estero? Non mi riferisco agli immarcescibili Banana e Murakami, ma a scrittrici e scrittori come Murata Sayaka, Miura Shion, Furukawa Hideo.
Laura: Negli anni recenti non solo l’Italia, ma il mondo intero, si sta aprendo di un grado in più al Giappone, e la letteratura fa parte di questo processo di allargamento dello sguardo. La scelta mi pare ampia, benché dettata – come del resto oggi è tutta l’editoria – dalla possibile risposta del mercato. Se, escludendo il filone alto, un tempo si eliminavano dai romanzi addirittura i nomi dei luoghi per evitare di disorientare il pubblico, per poi passare a una martellante riproposizione di stereotipi (anch’essi rassicuranti) come “geisha-sesso-sushi”, adesso si cerca di intercettare la moda del brand “Made in Japan”. Si rovesciano quindi sul mercato moltissime pubblicazioni, una scelta amplissima se paragonata a quella del passato, e tuttavia, come accade agli altri libri – italiani e non – sugli scaffali delle librerie, mi pare che esse siano poco seguite dalle case editrici – che hanno da pubblicizzarne decine in contemporanea. Insomma, si giocano tutte sul loro marchio, ovvero sul loro essere mirate a un pubblico filo-nipponico, che le acquista a priori, proprio (e quasi esclusivamente) perché parlano di Giappone. In questo senso il messaggio profondo è messo in secondo piano, pregiudicata una sua ricezione più rilevante ed efficace da parte di un pubblico a sua volta più ampio. Ciò che conta è, insomma, la provenienza. Sarebbe bello se le opere immesse sul mercato fossero curate di più, presentate “per sé”, e non solo per essere opera di autori giapponesi.
M.me Red: Come sai io prediligo la scrittura delle donne: c’è qualche autrice a cui sei particolarmente legata? E che magari vorresti vedere tradotta per i lettori italiani?
Laura: Mi piacerebbe vedere sugli scaffali delle librerie italiane Kanai Mieko e Osaki Midori, tra le altre. E tuttavia, chissà se incontrerebbero il gusto del pubblico italiano. A volte penso che tradurre in prima persona sia l’unico modo per spingere anima e corpo un autore o un’autrice, farsi carico del loro stile, presentarli come fossero parte di sé. Io sono innamorata di un “duo”, come tu ben sai. Sarebbe bello un giorno riuscire a portarli in Italia.