Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Un’altra assolata estate bussa ormai alla porta di M.me Red, e il suo pensiero corre con sempre più insistenza a quello che in Giappone è considerato il modo migliore per rinfrescarsi nell’afa e nel solleone: il kakigōri かき氷, una sorta di granita, ghiaccio tritato arricchito con sciroppi vari.
Durante i mesi più caldi, lungo le strade sbocciano copiose le tradizionali e caratteristiche insegne rosse e blu, che richiamano i passanti accaldati e li invitano a mettersi in fila davanti alle numerose bancarelle, ai bar, ai ristoranti, ai negozi, che offrono un piacevole refrigerio.
Re incontrastato dello street food estivo e ospite fisso agli innumerevoli matsuri che si susseguono da giugno a settembre, il kakigōri trova spazio anche nelle pagine dei romanzi e dei racconti, perfetti compagni di ombrellone.
Era fantastica. Quel ghiaccio friabile e zuccherino sulla lingua sembrava ovatta gelata. Si scioglieva in un attimo e scendeva subito giù, in ogni angolo del corpo, come se una brezza rinfrescante mi spirasse dentro. (Ogawa Ito, La cena degli addii, Neri Pozza 2012)
Leggendo, abbiamo l’impressione di assaporare la fresca dolcezza del ghiaccio insieme alla piccola Mayu, la tenera protagonista del breve racconto ‘La granita della nonna’. Tutto ruota attorno all’inappetenza dell’anziana nonna, e al suo desiderio di gustare un kakigōri. Ma non uno qualsiasi: una montagnola di ghiaccio perfetta, che ricordi il Monte Fuji… Preparata con cura.
A quanto pare, per fare le sue ottime e inimitabili granite, il gestore del chiosco utilizza solo acqua minerale naturale. Durante l’inverno raccoglie l’acqua in una specie di piscina, attende che il gelo la faccia ghiacciare, la distribuisce in forme di una certa grandezza e la conserva in apposite celle frigorifere. Non saprei dire in che cosa il ghiaccio così ottenuto differisca da quello normale, ma ricordo che mio padre ne parlò con grande entusiasmo, affermando che aveva un sapore eccezionale. «Con questo ghiaccio» aggiunse, «si potrebbe fare un whisky on the rocks coi fiocchi». (Ogawa Ito, La cena degli addii, Neri Pozza 2012)
Cibo del corpo e cibo dell’anima. Che racchiude un mondo di ricordi e affetti, che ristabilisce legami, guarisce ferite, rinfresca gli animi.
Lo sapevano già in epoca Heian, a quanto pare. Quando il ghiaccio, raccolto nella stagione invernale e conservato in ghiacciaie, veniva raspato con la lama di un coltello e addolcito con uno sciroppo d’uva per creare un piacere riservato ai nobili della corte. Un piacere raro, che Sei Shonagon, indiscutibilmente la più snob fra le dame di cui la tradizione manoscritta ci ha tramandato memoria e traccia, non poteva non apprezzare:
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Particolari eleganti e graziosi.
Indossare su una veste rossa un'ampia e giovanile sopravveste candida. Le uova di anatra. Un dolce di zucchero di vite, conservato nel ghiaccio e presentato in una coppetta di metallo. Un rosario di cristallo. I fiori di glicine. I fiori di prugno quando su di essi fiocchi la neve. Un bambino graziosissimo che mangi fragole. (Sei Shōnagon, Le note del guanciale, SE)
La popolarizzazione risale a un’epoca molto più tarda: è infatti solo durante il Meiji che il kakigōri fa la sua apparizione nella forma attuale, per conoscere poi un vero e proprio boom intorno agli anni ‘20. Fino ad allora il ghiaccio era un bene raro e prezioso, e l’inversione di rotta avvenne grazie all’intraprendenza di un abile uomo d’affari, Nakagawa Kahe, che riuscì ad avviare il trasporto di ghiaccio dall’Hokkaido a Yokohama. Fu così che nel 1872 a Kanagawa poté aprire la prima rivendita di kakigōri.
Grazie all’invenzione – soltanto pochi anni dopo – della prima macchina per fabbricare il ghiaccio e – all’inizio dell’epoca Shōwa – del tritaghiaccio, le tipiche montagnole candide variamente aromatizzate e colorate con l’aggiunta di sciroppi, matcha, azuki, latte condensato, perle di tapioca, frutta sono diventate uno dei simboli della calda estate giapponese.
Ai tavolini in prossimità del chiosco, tutti gustavano felici le loro granite, lo sguardo assorto su quei deliziosi cumuli di ghiaccio colorato. […]«Aspetta un attimo» mi ha risposto dopo qualche secondo il tizio delle granite, in tono brusco, quando ormai già pensavo che non mi avrebbe dato retta. Quindi ha cominciato a girare la leva della sua macchina e, in pochi istanti, nel grande bicchiere lì davanti si è formata una montagna di ghiaccio fine e bianchissimo. […] Il tizio ha preso la bottiglia con lo sciroppo e ne ha versato accuratamente una certa quantità sul ghiaccio. Poi mi ha fatto cenno di passargli la piccola ghiacciaia e ha sistemato per bene al suo interno la granita. (Ogawa Ito, La cena degli addii, Neri Pozza 2012)