Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Oggi, 10 maggio 2015, si festeggia la festa della mamma, e la vostra M.me Red non può fare finta di nulla… dopo tutto anche io ho una mamma!
Pensando alle tante figure di madri che ricorrono nella letteratura del Giappone contemporaneo, non si può non parlare di Chōji, Il figlio della fortuna, di Tsushima Yūko (1947 –). Figlia di Dazai Osamu, i suoi lavori ruotano quasi ossessivamente attorno al problema dell’identità di genere in rapporto ai suoi aspetti più fisici, alla funzione riproduttiva, alla gravidanza, evento traumatico con il quale donna nel suo processo di maturazione non può evitare di confrontarsi. Anche altre scrittrici, Kōno Taeko e Hirabayashi Taiko per esempio, hanno creato personaggi femminili che si ritraggono di fronte alla maternità o, se l’accettano, rifiutano di essere “buone madri”. Questa esperienza diventa così il campo di battaglia sul quale le donne combattono per essere riconosciute come persone, sfidando le norme sociali che limitano la loro libertà scelta. Tsushima è andata oltre, esplorando proprio ne Il figlio della fortuna, il complesso rapporto madre-figlia.
Kōko, la protagonista, è divorziata. Trascura se stessa, la casa. E’ molto poco “materna” nei confronti della figlia adolescente, Kayako, che infatti preferisce la casa perfettamente ordinata della zia. Kōko, convinta di essere incinta del proprio amante, decide di portare a termine la gravidanza. Un figlio concepito al di fuori del vincolo matrimoniale, da crescere con l’aiuto di Kayako, rappresenta per lei la possibilità di costruire un nuovo nucleo famigliare, non convenzionale, ma autentico. Ancor di più è inconsapevole gesto di sfida al perbenismo ipocrita della madre e del suo alter ego, la sorella maggiore. A loro rimprovera infatti le scelte di vita e il fatto di averla sempre rifiutata. La madre le ha negato amore e comprensione, ma soprattutto le ha impedito di sviluppare la fiducia in se stessa. E’ la determinazione a non conformarsi a quel modello che ha mosso i passi di Kōko dall’adolescenza all’età adulta.
Eppure questa gravidanza “trasgressiva” nasconde il desiderio inconscio di ritrovare la madre. Kōko durante i mesi d’attesa, mentre il suo ventre si ingrossa, sogna. Il sogno non la conduce alla madre reale, ma in un paesaggio che simboleggia l’esperienza stessa della maternità. Sogna oceani sconfinati, nei quali ogni tensione sembra sciogliersi, vinta dalla dolcezza dei ricordi.
Alla fine la gravidanza si rivela isterica. Tuttavia questa esperienza ha reso Kōko più forte: ora sa di essere in grado di sfidare una società che la vuole costretta entro i confini angusti di un ruolo prestabilito. Ha anche acquistato la sicurezza necessaria a lottare per la figlia che ha perduto, per costruire con lei un rapporto nuovo, un legame libero dall’umiliante eredità patriarcale.
Nel romanzo Tsushima si concentra sul potenziale positivo della maternità, “de-istituzionalizzata” e riconsegnata alla donna, finalmente libera di sceglierla o di rifiutarla. Kōko è una delle tante “eroine passive” che abitano le sue storie: abbandonate dagli amanti, ossessionate da figure materne troppo ingombranti, apparentemente deboli, sono invece capaci di trasformare la propria stessa passività in una forma di resistenza. Kōko punta i piedi e rifiuta i passaggi che tradizionalmente definiscono la maturazione della donna, primo fra tutti l’abbandono dell’infanzia per la piena femminilità, per la maternità.
Le donne protagoniste dei lavori di Tsushima sono ormai libere dalle costrizioni della tradizione e della struttura famigliare, devono però affrontare il difficile compito di riempire il vuoto socio-culturale che si è creato con l’emancipazione. I vecchi valori non vengono più rispettati, e i nuovi non riescono ancora a rimpiazzarli. L’unica scelta possibile è quella di abbracciare la frammentazione e l’incompletezza che sono il segno di un’identità femminile non ancora pienamente elaborata. Siamo un corpo che dà forma ad altri corpi e che nel processo deve riuscire a conservare i suoi confini, siamo madri che alle figlie possono soltanto offrire la propria storia.