Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Mishima Yukio told me that Japanese literature is full of mental cruelty: I wanted to show active physical cruelty instead. (Ishihara Shintarō)
A segnare l’inizio della carriera letteraria di Ishihara Shintarō (1932-), oggi noto e discusso uomo politico, è l’assegnazione, nel 1956, del prestigioso Premio Akutagawa al suo romanzo d’esordio, La stagione del sole (Taiyō no kisetsu).
Il successo di questo come dei successivi romanzi di Ishihara, strettamente legato a quello delle versioni cinematografiche e alla brillante carriera d’attore del fratello, Ishihara Yūjirō (1934–1987), ci offre un importante spaccato della storia del costume nel Giappone del dopoguerra, e dell’ascesa della cosiddetta “cultura di massa”. Anzi, proprio Yūjirō diventa il simbolo e il volto della cosiddetta tayōzoku, “la generazione del sole”, la gioventù scandalosa ritratta nelle pagine di La stagione del sole, Frutto pazzo (Kurutta kajitsu, 1956), Il gioco perfetto (Kanzen na yūgi, 1956): rampolli dell’alta borghesia, all’ossessiva ricerca di un limite da superare, una regola da infrangere. Sullo sfondo delle ville lussuose o dei raffinati resorts che in un paese in rapida ricrescita sono il segno tangibile dello status sociale. Alcool, viaggi psichedelici, sesso estremo, violenza.
Al centro di Kurutta kajitsu un triangolo amoroso: un gruppo di amici, la noia delle vacanze estive, due fratelli intrecciano una relazione con la stessa donna. In un crescendo di violenza e cinismo, quando Haruji, il più giovane e fragile, scopre il tradimento, non riesce ad accettarlo, e uccide i due amanti in un tragico finale, che suggella il vuoto di esistenze consumate all’insegna della soddisfazione immediata e fugace del piacere.
Siamo negli anni del cosiddetto mohaya sengo de wa nai (lett. “non più il dopoguerra”), lo slogan che inneggiava all’inizio del miracolo economico, e soprattutto gridava la voglia di lasciarsi alle spalle l’ombra del conflitto, della sconfitta, gli anni intensi ma difficili dell’occupazione americana, i sacrifici richiesti dalla ricostruzione. In questo contesto, i romanzi di Ishihara così come gli adattamenti cinematografici e le riviste che li pubblicizzano, da un lato esemplificano nel setting patinato le aspirazioni di una classe media già sedotta dal “sogno americano” (case di lusso, yacht, macchine straniere); dall’altro traducono e nel contempo alimentano le ansie di una società legata a un’etica tradizionale e conformista nei confronti di quelle che negli anni ’50 cominciavano a essere indicate a livello globale come youth cultures. Provocatori e scandalosi, sembrano prendersi gioco di modelli di vita e di relazione sclerotizzati e lontani dalla sensibilità attuale, di valori rivelatisi fallimentari, ridotti a un cumulo di macerie dai bombardamenti.
Il cinismo con il quale viene dissezionata e rigettata l’etica tradizionale, è parte di un fenomeno più ampio, del processo di “americanizzazione” della cultura giapponese, e a livello letterario si traduce nella scelta di un linguaggio che predilige l’immediatezza del tempo presente, e l’ibridazione, laddove continuamente inframmezza il tessuto narrativo di espressioni tratte dallo slang alla moda e di termini inglesi. Lo stesso linguaggio che, accompagnato in sottofondo dal sottile erotismo della musica jazz, si ritrova nei film, nelle riviste, sui cartelloni pubblicitari, nei primi fotoromanzi che proprio nelle seconda metà degli anni ’50 fanno la loro apparizione sul mercato nipponico: con lo “Shintarō boom” ha inizio quell’intreccio fra testuale e visuale che dal 1956 in poi sarà la cifra delle subculture giovanili, e che nei decenni successivi si arricchirà di nuove espressioni parallelamente allo sviluppo dei new media.
Naturalmente le critiche da parte dell’establishment saranno aspre, e i romanzi di Ishihara verranno ripetutamente accusati di esercitare un’influenza negativa sulle giovani generazioni, ma non si può per questo negarne l’importanza. L’assegnazione del Premio Akutagawa a La stagione del sole ha di fatto rappresentato uno spartiacque nella cultura del dopoguerra giapponese: ha determinato infatti il riaccendersi del dibattito sul valore della cosiddetta letteratura di massa a fronte della “letteratura alta”, destinato a protrarsi fino agli anni ’80, quando si affermeranno autori come Murakami Ryū e Tanaka Yasuo (1956), e alla “generazione del sole” si sostituirà la “tribù del cristallo”. Nati negli stessi anni in cui Ishihara raggiungeva il successo, questi scrittori ne raccoglieranno l’eredità, dando voce al disincanto di una generazione cresciuta negli anni del boom, del consumismo sfrenato, del vuoto morale. Ancora lusso, ricerca ossessiva del piacere, attraverso gli oggetti, il sesso, la droga, la violenza.
(da Roberta Novielli – Paola Scrolavezza, Lo schermo scritto. Letteratura e cinema in Giappone, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2012)
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