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Japanese Heels – La crudele perfidia del fiore di ciliegio

22 Marzo 2015
M.me Red

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

 

Anche quest’anno la primavera è arrivata, in un tripudio di bacheche in fiore, delicatamente tinte di rosa. Nemmeno la vostra cinica M.me Red può sottrarsi al fascino sottile dei petali più fragili e perfidi che la natura abbia mai creato… Quindi, che sakura sia!

La consuetudine di radunarsi sotto i ciliegi, di ubriacarsi e di arrivare persino a vomitare e litigare è nata nell’epoca Edo. In tempi più antichi nessuno avrebbe mai pensato che passare sotto i ciliegi costituisse uno spettacolo meraviglioso: anzi, sembrava una cosa terribile. (Sakaguchi Ango, “Sotto la foresta dei ciliegi in fiore”, in Sotto la foresta dei ciliegi in fiore e altri racconti, Marsilio, Venezia 1993, p. 71)

I ciliegi in fiore richiamano l’immagine della rinascita a primavera, celebrata oggi come in epoca classica con briose libagioni all’ombra dei rami madreperlacei: Sakaguchi Ango (1906-55) nel suo racconto Sakura no mori no mankai no shita (Sotto la foresta di ciliegi in fiore, 1947) con un provocatorio gioco del rovescio attribuisce invece alle fragili corolle un oscuro potere, capace di generare inquietudine e paura anche nei cuori più arditi e coraggiosi.

Anticonformista, ribelle, insofferente a ogni forma di convenzione e al perbenismo borghese, fin dagli esordi l’ironia è il suo strumento. Spesso accostato a Dazai Osamu (1909-48) e al gruppo dei buraiha (I decadenti), nei suoi romanzi e racconti, che spaziano fra i più svariati generi letterari, ricorrente è la critica sociale, espressa nei modi del comico o della farsa, che si accompagna a un profondo senso di disillusione per il presente. Da qui scaturisce l’interesse per il passato, la predilezione per ambientazioni lontane nel tempo. Elementi entrambi esplicitati in Sakura no mori no mankai no shita già nelle prime righe: sia nella menzione di un tradizionale dramma al quale – per sua stessa ammiccante confessione – l’autore ha modificato il finale per piegarlo alla sua tesi, sia in quell’Anticamente con il quale il racconto vero e proprio ha inizio. Questo narra di un feroce bandito che vive su un monte solitario per raggiungere il quale è necessario attraversare una foresta di ciliegi. Un giorno, nel corso di una rapina, rimane affascinato dalla bellissima moglie della sua vittima, uccide l’uomo e prende con sé la donna.

Gli parve di uscire da un incubo, i suoi occhi e la sua anima furono assorbiti dalla bellezza di lei e incapaci di staccarsene. Eppure si sentiva inquieto. Non capiva come e perché ciò succedesse, né cosa fosse. Sapeva solo che la donna era troppo bella e che il suo cuore, ammaliato da questa bellezza, non riusciva a percepire appieno la tempesta di angoscia che lo afferrava. (p. 77)

Un passato imprecisato dunque, i cui fragili contorni temporali presto si dissolvono nel fantastico. La donna infatti si rivela una feroce e spietata collezionista di teste mozzate, per ottenere le quali lo persuaderà con le sue lusinghe a trasferirsi nella capitale e a macchiarsi di un numero incalcolabile di delitti. A scuotere l’uomo dalla malìa e dall’incubo nel quale è precipitato, sarà proprio la foresta di ciliegi in fiore che la nostalgia per la montagna lo indurrà a riattraversare ancora una volta con la moglie sulle spalle.

Ed ecco che la foresta gli apparve davanti agli occhi. Era tutta una distesa di fiori. I petali portati dal vento si spargevano al suolo e la terra ne era ricoperta in ogni angolo. Ma da dove erano venuti? In alto, il folto dei fiori si stendeva a perdita d’occhio, compatto come se neppure un petalo fosse mai caduto. (pp. 95-96)

Ancora una volta il fantastico si annuncia con l’inquietudine generata da una bellezza nel segno dell’eccesso: troppo perfetta quella della donna, esondante quella dei petali di ciliegio. E a questa bellezza si accompagna il gelo, quello del vento che soffia fra i rami, quello delle mani della donna che in un lampo ne rivelano la vera natura.

L’angoscia lo assalì di colpo e in un lampo tutto gli fu chiaro: quella donna era un demone. Un vento gelido cominciò a spirare in tutte le direzioni. Sulla sua schiena era avvinghiata un’orribile vecchia dal volto enorme e il corpo violetto. La bocca si apriva come una ferita fino alle orecchie e i capelli si arricciavano ispidi e verdi. (p. 96)

Sotto quella distesa di petali candidi la donna mostra il suo vero volto, e il bandito, in preda a una incontrollabile follia omicida, stringe le mani robuste attorno al suo collo raggrinzito, e la uccide. Il corpo, ormai senza vita, prima di dissolversi fra le corolle, per un istante ritrova tutta la sua bellezza; nel freddo glaciale, all’uomo si disvela per la prima volta la propria profonda solitudine, per poi scomparire a sua volta, sotto il tappeto di fiori bianchi.

Nessuno è riuscito a sciogliere il mistero degli alberi fioriti. Forse, chissà, si chiama “solitudine” e l’uomo ormai non aveva più motivo di temerla. Lui stesso era solitudine. (p. 97)

 

Qui il primo dei due episodi della versione anime, diretta nel 2009 da Tetsuro Araki, con disegni di Tite Kubo:

(da Roberta Novielli – Paola Scrolavezza, Lo schermo scritto. Letteratura e cinema in Giappone, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2012)

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