Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Non era il rumore di un aereo. Era il ronzìo di un insetto che mi volava dietro l’orecchio. Più piccolo di una mosca, l’insetto mi ha girato per un po’ davanti agli occhi, poi è scomparso in un angolo della stanza buia. Sul tavolino bianco rotondo che riflette la luce del soffitto c’è un posacenere di vetro. Dentro si consuma una sigaretta lunga e stretta, sporca di rossetto sul filtro. Sul bordo del tavolo c’è una bottiglia di vino a forma di pera; sull’etichetta è disegnata una donna bionda con un grappolo d’uva in mano, che si riempie la bocca di chicchi. Anche sulla superficie del vino dentro al bicchiere si riflette tremolante la luce rossa del soffitto. Le gambe del tavolino affondano e scompaiono nella lana folta del tappeto. Di fronte c’è un grande specchio. La donna che vi sta seduta davanti ha la schiena imperlata di sudore. (Murakami Ryū, Blu quasi trasparente, incipit)
È più forte di me. Ogni anno quando si parla di Nobel alla letteratura è sempre lo stesso pensiero che mi frulla in testa: se Murakami deve essere, che sia Ryū.
Una provocazione? Non del tutto. Che Haruki non sia il mio autore preferito, è risaputo. Il che non significa che io ne disconosca il ruolo nel turbinio cultural-letterario degli anni ’80. Ma se dovessi descrivere la sua narrativa in una sola parola, credo sceglierei “inter-nazional-popolare”. Prolisso, ripetitivo, banale…ogni volta che leggo un suo romanzo, dalla decima riga mi perseguita quella per me sgradevole sensazione di déjà-vu. E’ stato così fin dalla prima volta, quando ho letto Norwegian wood. Con Kerouac accigliato appollaiato sulla spalla. Sorvolo sui ritratti femminili che costellano i suoi romanzi: deliziose orecchie pronte ad ascoltare, ad accogliere i tormenti del protagonista (maschio) di turno…silenziose, mute. L’unico romanzo che ho assaporato con piacere è stato Nel segno della pecora.
Mille volte meglio il disincantato Ryū, provocatorio, scomodo. Tagliente. Con quella stupefacente capacità di vedere un attimo prima dove è che la trama sta per sfilacciarsi in quel tessuto sociale apparentemente intatto, compatto, perfetto…
Lasciate che ve lo mostri più da vicino.
“Ho la testa piena di vermi” continuavo a pensare, e guardandomi allo specchio con la cuffia ho cominciato a convincermi che fosse vero. Mi dicevo che il mio corpo non era altro che capezzoli e la carne lì in basso, e sentivo davvero solo queste parti ingigantite dentro di me: come nel mare antartico o in altri posti del genere emerge solo la punta dell’iceberg così anche in me spuntano solo i capezzoli e le labbra lì sotto. (Ryu Murakami, Tokyo Decadence, Mondadori, Milano 2004, p. 11).
Scrittore e regista controverso e iconoclasta, Murakami Ryū (1952-) si impone all’attenzione della critica quando nel 1976 pubblica il suo primo libro, Kagirinaku tōmei ni chikai burū (Blu quasi trasparente), ritratto crudo e spietato della generazione figlia del boom economico, smarrita in uno psichedelico viaggio, nel corso del quale tutto – sesso, droga, violenza – viene vissuto senza freni. Negli anni successivi, Murakami conferma il suo talento: i suoi lavori, oltre a godere di un crescente successo di pubblico, vengono puntualmente insigniti dei più prestigiosi riconoscimenti.
Topāzu (Tokyo Decadence, 1988) è una raccolta di racconti che ci introduce ancora una volta al lato oscuro, nascosto di una società solo in apparenza armonica. A guidarci in questo percorso, in un’atmosfera satura di erotismo morboso, le voci delle giovani protagoniste: prostitute, donne ridotte a pura carne, oggetti di piacere, di scambio, in un mondo dominato da un dilagante consumismo che fagocita nell’urgenza del possesso ogni grumo di umanità.
Ferocia, sadomasochismo, perversione: una storia dopo l’altra, Murakami ci racconta nel suo stile asciutto, nel suo linguaggio di chirurgica precisione, come vengano abbattute nuove barriere dell’umiliazione, del degrado fisico e morale,. Nessuna metafora, nessun eufemismo, nessun orpello, in un crescendo di decadenza e cinismo nei quali corpo e anima sembrano annullarsi, e l’ultimo baluardo d’innocenza – i ricordi di infanzia, di un’adolescenza in cui era ancora possibile sognare l’amore puro – sono destinati a essere spazzati via.
Eppure, qui come in altri lavori, i personaggi di Murakami sembrano in qualche modo preferire il mondo violento, estremo dei bassifondi, alla quotidianità soffocante, alla gabbia vischiosa del perbenismo e della norma sociale. Spesso accostato a Ballard, sulla sua pagina a dominare è l’estremo, l’eccesso assurto a parametro estetico e morale, unica forza in grado di arrestare il flusso della banalità, unica possibile forma di resistenza all’appiattimento della vita contemporanea. Le crepe sottili che percorrono la superficie solo in apparenza integra di un tessuto sociale in realtà rarefatto e fragile, vengono aperte, slabbrate con brutalità, per far emergere il lato sordido, il male.
La vera provocazione di Murakami non è nelle sue immagini scioccanti, nelle righe che stillano fluidi corporei, sangue, sperma, sudore, nelle visioni indotte dalla droga o dall’alcol. L’iconoclastia è nel dubbio che insinua: se ancora esiste un frammento di umanità, è qui, nel degrado, nel fondo dell’abiezione.
Detto questo, cos’è il Nobel? Il Meridiano di Greenwich della letteratura mondiale, risponderebbe Pascale Casanova. Che ogni anno si riposiziona, e, partito dalla vecchia, cara Europa, si è via via spostato – con un po’ di diffidenza si intende, sovente zigzagando a passo di gambero – fino ad abbracciare i paesi d’Oltreoceano, e l’Asia. Sull’onda di movimenti, tensioni, lacerazioni legate a questioni di egemonia politica prima ancora che culturale. Ma che cos’è la letteratura mondiale? Il nuovo canone? o piuttosto – come suggerisce Damrosh – una modalità di lettura? cosa determina l’appartenenza o la cittadinanza di un testo letterario? se riconosciamo che il momento della fruizione/circolazione ha in questo caso la precedenza su quello della produzione, e un’opera diventa “mondiale” nel processo di traduzione/distribuzione… allora Haruki for President…
Ammesso naturalmente che il Meridiano di Stoccolma si sposti… un momento… dove? Haruki non vive più in Giappone da anni…!
(parzialmente estratto da Roberta Novielli – Paola Scrolavezza, Lo schermo scritto. Letteratura e cinema in Giappone, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2012)