Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Figura che istintivamente ascriviamo al futuro, il cyborg ci parla invece del presente, della società contemporanea, delle sue trasformazioni, dei sogni che le muovono, delle paure che ne scaturiscono.
Strumento imprescindibile per l’esplorazione dei nuovi paradigmi della soggettività, amalgama di organico e di tecnologico, confonde i criteri modernisti su cui questa si fonda, nello specifico sessualità e unicità/singolarità. Icona di quel filone delle culture pop del Giappone contemporaneo incentrato sui temi dell’apocalisse, della sopravvivenza, dell’irreversibile perdita dell’innocenza, ci riporta all'inevitabile confronto con il bombardamento atomico e la possibilità reale della distruzione globale in esso implicita, all'esplorazione della natura intrinsecamente ambigua della tecnologia.
“Cosa significa essere salvi per le persone che vivono nel presente dell’era atomica?” si chiede Hayashi Kyōko (1930-). E ancora, Hara Tamiki (1905-1951):
Questi sono esseri umani
Questi sono esseri umani,
Guarda come la bomba li ha trasformati.
Le carni spaventosamente rigonfie,
Uomini e donne un’unica forma.
Ah! Da quell’insieme di pezzi anneriti,
Voci sfuggono dalle labbra gonfie dei visi infiammati:
“Aiuto!”.
Parole fragili, silenziose.
Questi sono esseri umani,
I volti di esseri umani.
Il corpo di chi è sopravvissuto al bombardamento atomico, il corpo hibakusha è un corpo lacerato, esposto, improvvisamente permeabile alla contaminazione, alla metamorfosi. Comunque ibrido. Come il cyborg, biotico e meccanico, soggetto che non può esperirsi e percepirsi come “uno”, ma nemmeno può considerarsi “duplice”, anche soltanto perché quei confini, una volta scardinati, non possono essere rifissati.
Simbolo di una ‘umanità liquida’, prepotentemente sessuata laddove in scena è un corpo di donna. Femminizzazione/inferiorizzazione dell'Altro? Ulteriore, estremo esito di una società sessista che rifiuta di fluidificarsi? Forse. Ma Donna Haraway nel suo Cyborg Manifesto (1985) provocatoriamente ci invita a uno sguardo diverso.
“Le immagini cyborg possono indicarci una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti. Questo è il sogno non di un linguaggio comune, ma di una potente eteroglossia infedele. Significa costruire e distruggere allo stesso tempo macchine, identità, categorie, relazioni, storie spaziali. Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che dea.”
Perché no?
OPENING DI GHOST IN THE SHELL: INNOCENCE