Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.
Il colore di M.me Red è indubitabilmente il rosso, ma non un rosso qualunque: quella particolare sfumatura di rosso cupo, con una punta di noir. Un colore che ben si addice a una delle mie scrittrici preferite, Kirino Natsuo – definita da Daisuke Hashimoto “l’unica vera voce innovativa della letteratura giapponese degli ultimi venti anni” – e a uno dei suoi maggiori successi, Una storia crudele.
Un romanzo che si snoda sul filo di una sottile mise en abîme, di un gioco sulfureo le cui pedine sono la vita, la morte, la scrittura: una scrittrice che si nasconde sotto uno pseudonimo, un manoscritto che racconta di un’esperienza vissuta, una lettera che mette in dubbio l’attendibilità dei romanzi. Una scomparsa. Dov’è la verità? Cos’è la verità? Ogni parola, ogni frase sembra far vacillare la precedente, in una narrazione che continuamente si nega. La crudeltà è nell’orrore della storia narrata, una bambina di dieci anni, Keiko – la scrittrice stessa – rapita e tenuta segregata per lunghi mesi da Kenji, agghiacciante uomo-bambino, vittima e mostro: nelle sue azioni efferatezza e innocenza si confondono, e su questa anomalia si costruisce l’ambiguo rapporto che si instaura fra i due, destinato a segnare per sempre la vita di Keiko, a inghiottire gli ultimi echi di un’infanzia già minata dalle dolenti lacerazioni della vita famigliare. E la liberazione non segna la fine dell’incubo, spalanca il baratro della curiosità morbosa dei media, dei vicini, degli insegnanti, degli psicologi, degli investigatori. La ragazzina reagisce chiudendosi in un muto isolamento, e l’angoscia, gli interrogativi senza risposta trovano sfogo ed espressione in un mondo di cupe e rampicanti fantasie, che saranno il nocciolo del suo esplosivo successo come scrittrice.
Ancora una volta Kirino ci racconta la storia di una donna, e con la sua scrittura dal chirurgico nitore ne indaga la sofferenza, un male di vivere che affonda le proprie radici in un tempo che precede l’oltraggio, nel selciato plumbeo di una squallida periferia, negli sguardi vuoti di chi guarda ma non vede, nell’anafettività famigliare. Se questa è la quotidianità alla quale Keiko viene brutalmente strappata dal suo rapitore, il mostro dallo sguardo affettuoso, a quale “normalità” potrà tornare? I romanzi sono castelli di bugie, le scrive Kenji molti anni dopo, nella lettera che è il motore del racconto, ma per la bambina violata, che vive nascosta, protetta dalle torri d’avorio del silenzio che lei stessa ha costruito, rappresentano l’unico territorio in cui l’incubo, cioè il suo vero io, può tornare a vivere, pur trasfigurato in visioni ogni volta diverse. Adesso i ricordi si riaffacciano con prepotenza, crudi, densi – il tanfo di marcio dell’alloggio di Kenji, l’impronta della trama dei tatami sotto la pianta dei suoi piedi nudi, il sapore di ruggine dell’acqua nel bricco metallico, l’odore di cibo che verso ora di cena aleggiava lungo il ballatoio esterno – e chiedono con urgenza di essere tradotti in racconto. Il desiderio di liberare finalmente le tante parole mai dette si scontra però con la paura di rivivere l’orrore e forse ancor di più con il timore di guardare dentro di sé con sincerità. Così la confessione si fa a tratti reticente, il contorno degli eventi sfuma, i personaggi proiettano troppe ombre. E proprio questo è il fascino di Una storia crudele, di una narrazione che si dipana nella zona liminale fra il sogno e il reale, e, nel gioco di specchi e di immagini rifratte che costruisce, riesce a tenere avvinto il lettore dalla prima all’ultima riga.
(L'Indice dei libri del mese – aprile 2012)
Natsuo Kirino, Una storia crudele (traduzione di Gianluca Coci), Giano Editore, 2011