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Japanese Heels – Città reali, possibili e immaginate

27 Dicembre 2014
M.me Red

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

Tra i fenomeni che hanno segnato il passaggio dall'era industriale alla realtà post-industriale vi è l'assunzione di un peso sempre maggiore dello spazio urbano, come centro di quei processi di consumo all'interno dei quali anche la cultura ormai si colloca. Le città tendono così a diventare degli immensi contenitori di beni, servizi e immagini che devono essere organizzati o ri-organizzati in funzione della radicale ridefinizione delle strutture della vita quotidiana.

La città-non-stop, senza sonno, senza riposo, della quale Tokyo è l'epitome, diventa il modello di riferimento al quale tendono piccoli e grandi centri urbani. Un labirinto metropolitano nel quale l'uomo, come monade, può solamente smarrirsi: uno spazio che vede dissolversi il confine tra l’astratto e il quotidiano, tra i margini e il centro, tra il reale e il virtuale. Corpi di un’architettura sempre più fine a se stessa, corpi di donne e di uomini che li abitano, li percorrono. Sorta di contenitori in cemento e acciaio di sentimenti, desideri, paure, le città iper-moderne reali e immaginate vedono presente e futuro intrecciarsi con un passato che, proprio nel momento in cui i suoi moduli vengono stravolti, inizia una nuova vita, come traccia isolata, e solitaria, silente memoria.

Tokyo, la metropoli per eccellenza, frammentata, sfilacciata, deformata da un movimento incessante, è protagonista, come luogo reale e come luogo simbolico, nella narrativa giapponese contemporanea. Il testo si modella sulla città, e nel contempo la decostruisce per ricomporla nella scrittura: distorsione distopica, groviglio di strade ed edifici, de-identificata e sconnessa dalla propria stessa fisicità. Ab-norme cassa di risonanza, ripetitore che genera un rumore crescente, voragine che nella ripetitività dei suoi moduli, nella perdita di centro, confini e identità storica,

Luoghi e non luoghi si incastrano come tessere di un mosaico, si compenetrano reciprocamente, e la possibilità del non–luogo non è mai assente da un qualsiasi luogo, nella compresenza all’interno dello spazio sociale di fratture della solitudine, della non permanenza, dell'interazione strumentale e contrattuale. Nel cosiddetto sistema città infatti la sfera pubblica, lo spazio cioè che sancisce l’appartenenza dell’individuo alla “società”, si intreccia con la sfera privata, la casa, bozzolo, guscio, rifugio, talvolta gabbia, soprattutto quando a essere in gioco è un soggetto femminile.

Hasegawa Junko, “L’uovo infecondo”, in No geisha. Otto modi di essere donna nel Gippone di oggi, Mondadori, 2008:

Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Il ticchettio dei miei tacchi alti riecheggia per le scale, mentre, con un sacchetto di plastica del Family Mart contenente un succo di mela in tetrapak, raggiungo a fatica il mio appartamento.

Donne sole, quarantenni i cui passi risuonano nel vuoto di uno spazio architettonico e urbano sempre meno pensato per accoglierle: caffè anonimi, convenience stores desolatamente identici gli uni agli altri, marciapiedi deserti. Identità in bilico, che attraversano la metropoli e in essa cercano disperatamente di incidersi, di lasciare un segno, una traccia, che condensi la loro esistenza. Casa. Anonimi palazzi tutti uguali. Scale. Un minuscolo appartamento. Spazio privato, spazio dell’emotività. Forse la maternità potrebbe essere una risposta. Partorire un figlio, mettere al mondo il mondo: ma quel richiamo che ritorna ossessivo pagina dopo pagina – uovo, latte di cocco misto a tapioca – rifiuta di lasciarsi afferrare, e l’atto di dare la vita si realizza solo nel sogno, nel finale.

E intanto, continuo a sognare uova, tutte le notti. […] Chiudo gli occhi e vedo il sangue che scorre a tutta velocità dietro le mie palpebre. Poi, le pareti mi risucchiano al loro interno e, dopo qualche istante, mentre vengo espulsa, urlo: Eccola, la vedo, la mia testa!

Partorire il mondo, cioè, mettere al mondo se stessa. Un soggetto femminile capace di svincolarsi dalla marginalità cui la contemporaneità ancora la relega.

In questa, e in molte altre forme la realtà metropolitana dilaga oggi nella pagina letteraria, non più semplice sfondo, ma protagonista di un racconto in divenire. E l'uomo – post-moderno? iper-moderno? – percepisce, nella mente e nella carne, la propria alienazione, il proprio smarrimento. Realtà, allucinazione, utopia, incubo. In questo contesto, la scrittura, ancora una volta, scopre la sua potenzialità taumaturgica, e non esita a misurarsi con le distorsioni sensoriali dell'uomo, del mondo.

(da Paola Scrolavezza, Spazio urbano e spazio della scrittura: città reali, possibili, immaginate, in Michele Corleone, BokeTokyo, GBE, Roma 2011)

 

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