Coloratissimo, paradossale, fantascientifico, fumettoso, pop sono alcune delle definizioni che, solitamente, vengono utilizzate per presentare al pubblico l’arte di Takashi Murakami.
Devo ammettere che quasi nessuno di questi termini, affiancati a qualche immagine vista in rete, avevano solleticato la mia curiosità per il mondo superflat creato dall’artista tokyoita. E invece, appensa superata la soglia della Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, a Milano, che ha ospitato una sua esposizione fino al 7 settembre, ho scoperto quanto di quell’universo mi fosse in realtà piacevolmente e follemente familiare. Di più: quanto rappresentasse una sapiente miscela di aspetti tradizionali, contemporanei, religiosi e fiabeschi in grado di catturarmi.
I riflessi metallici della scultura ‘Oval Buddha Silver’, primo incontro del percorso espositivo, sembravano voler sintonizzare il visitatore su una frequenza che lo accompagnerà lungo tutta l’avventura. “Oval Buddha Silver” è una figura emblematica dell'universo di Murakami, porta con sè la cura per il dettaglio e l’ambiguità: ha due volti, uno meditativo con la bocca di una rana e un pizzetto (L’artista? L’Imperatore?) e un secondo, inizialmente celato all’ospite, terrificante, con i denti aguzzi di un pescecane. L’argenteo Buddha vibra come un diapason nella stanza e nell’immaginario.
Con questa eco nei pensieri si approda da ‘Arhat’ (che in sanscrito significa “essere che ha raggiunto l’illuminazione”): tre dipinti di grande formato, tra i 5 e i 10 metri di lunghezza, germogliati sulle macerie del devastante terremoto che ha colpito il Giappone nel 2011. Le immagini rappresentate sembrano attingere a un patrimonio antico, a quello delle vicende dei monaci buddisti che si trovano ad affrontare il declino e la morte. I paesaggi, nella loro tavolozza accesa e psichedelica, lasciano intendere come la Natura e la sua indomabilità possano tutto nei confronti del progresso tecnologico creato dall’uomo. Creature demoniache, mostri fantastici, simboli religiosi affiancano vecchi monaci che indossano i paramenti tradizionali.
Le ferite inferte dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale sulla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, lasciate volutamente visibili dai restauri, si accordano perfettamente con gli squarci provocati – nei luoghi e nelle pesone – dal terremoto del Tohoku, con i quali Murakami dialoga attraverso il ciclo di Arhat. Anzi, paiono ribadire i connotati universali del dolore.
Alcuni autoritratti dell’artista, frutto di ricerche più o meno giocose che Murakami ha condotto sulla propria immagine, precedono l’ultima serie di dipinti realizzati appositamente per l’esposizione: teschietti di ogni colore si sovrappongono uno all’altro come fossero sgorgati da una cascata. I connotati macabri dell’immagine sono però completamente cancellati dalle tinte luminose e dalle forme intenerite, “carine” delle scatole craniche.
Non è un’esposizione ampia ma di grande ricchezza. La curiosità per il dettaglio mi fa tornare da Arhat e a ogni sguardo scopro nuovi occhi e nuove creature.
Ora che, finalmente, ho assaggiato Murakami ne voglio ancora.
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