Una bambina scompare nel nulla, la famiglia soffre, la televisione e i social li mettono alla gogna: Missing (ミッシング) di Yoshida Keisuke è una feroce riflessione sullo stato dei mass-media giapponesi.
La perdita di un familiare rimane uno dei traumi che segnano più nel profondo una persona, ma se esistono parole per definire la perdita di un partner o di un genitore, ancora oggi in molte lingue – come l’italiano e il giapponese – nel dizionario non esistono parole per definire chi è orfano di unə figliə. E proprio da questa incapacità di circoscriverlo a un solo lemma rende forse questo dolore il più intenso e irrazionale della nostra società. Nonché il tipo di dolore che genera più scandalo, ma soprattutto ascolti.
Missing, nuova opera del cineasta Yoshida Keisuke presentata in anteprima mondiale al Far East Film Festival 26 di Udine, vuole raccontare ed esplorare il maelstrom emotivo che circonda una normale famiglia di Nagoya quando la loro bambina, Miu, scompare nel nulla un pomeriggio, a nemmeno cinquecento metri da casa.
La narrazione inizia a sei mesi dall’evento, e seguiamo la triste routine di Saori e Yutaka fra volantinaggi in spazi pubblici, raduni di volontari e servizi per la tv locale gestiti dal giornalista Sunada, azioni che non portano a nessun passo avanti concreto nelle indagini. I sospetti dell’opinione pubblica si focalizzano invece su Keigo, lo schivo zio di Miu e fratello minore di Saori, l’ultima persona che ha visto la bambina prima della sua scomparsa. e primo a diventare vittima della gogna mediatica.
L’interesse del regista però non si incentra sulle indagini e sull’urgenza del ritrovamento, quanto sulla sensazione di vuoto e sul dolore che la scomparsa della bambina ha lasciato in chi è rimasto, il che rende la pellicola a tutti gli effetti un film sull’hauntology, concetto filosofico formulato da Jacques Derrida che ruota attorno all’ossessione per il passato.
Il personaggio di Saori ne è l’esempio principale: grazie all’intensa interpretazione di Ishihara Satomi, nelle due ore della proiezione assistiamo al lento e inesorabile disfacimento emotivo di una madre che non vuole lasciare andare il ricordo della figlia nemmeno quando ormai diventa chiaro che non la riabbraccerà mai più. Gli attacchi improvvisi di pianto e la ricerca ossessiva del volto della figlia in ogni bambina che le assomigli sono manifestazioni di uno strazio che si scontra prima con il dolore “muto” del marito e con i litigi che ne scaturiscono, e poi con la società che ha messo rapidamente la vicenda nel dimenticatoio.
Figura chiave è quella del giornalista che segue il caso di Miu: nonostante le pressioni dei suoi superiori, Sunada si mantiene fino alla fine rigoroso nella propria integrità, nel riportare correttamente il caso e offrire un vero servizio pubblico, impermeabile alle strette di un sistema corrotto dall’ossessione per il sensazionalismo e gli alti rating, anche a costo di compromettere la sua carriera.
In un momento in cui la professione giornalistica è ai suoi minimi storici in termini di credibilità in tutto il mondo e le dinamiche dello spettacolo corrompono ogni storia, è rincuorante vedere rappresentato un personaggio che ne incarna le virtù e la deontologia, nonostante non ne esca vincitore.
Attraverso la camera e gli schermi si svela il cuore di Missing, il racconto dell’impatto dei mass media nella sfera privata ed emotiva: Saori non solo risulta quasi grottesca con i suoi pianti in broadcast, ma diventa succube dei commenti degli hater online che la accusano di essere stata una pessima madre e perde le staffe col fratello quando questi viene additato come il possibile colpevole. L’attrice ci regala una interpretazione intensissima, ma la sceneggiatura tende a spingerla verso il limite dell’overacting, quando invece sono i momenti di silenzio e gli sguardi vacui a evidenziarne il talento.
La pellicola di Yoshida risulta un’analisi interessante della cronaca nera nel mondo contemporaneo, ma per lo spettatore potrebbe risultare indigesto e inconcludente da seguire, specialmente per la mancanza di una reale chiosa narrativa. Alla fine, come Saori, rimaniamo a inseguire un fantasma.