Cosa significa essere al mondo? Avere consapevolezza di sé ma non avere riconoscimento legale, essere a tutti gli effetti “invisibile” alla società? Ichiko, l’ultimo lavoro del regista Toda Akihiro presentato al Far East Film Festival di Udine, parte da un semplice pretesto narrativo – la misteriosa sparizione di una ragazza – per andare a esplorare problemi strutturali e spesso nascosti insiti nella società giapponese.
Tratta da una pièce teatrale scritta dallo stesso regista, la pellicola parte dalla struttura convenzionale della detective story incentrata su una misteriosa scomparsa, procedendo nella narrazione attraverso ricostruzioni e punti di vista alternati di quelli che a tutti gli effetti sono i “testimoni” del caso – le persone che in momenti diversi della vita sono entrati in contatto con la protagonista Kawabe Ichiko (interpretata da Sugisaki Hana). Ben presto però la struttura classica da giallo inizia a cedere, gettando lo spettatore in un intreccio di flashback e flashforward che non sempre appare riuscito, ma che è sicuramente funzionale alla percezione dell’esistenza della protagonista come qualcosa di frammentario e sostanzialmente sfuggente.
Per gran parte del film, infatti, la protagonista esiste solo nel passato o attraverso gli sguardi degli altri: la storia si apre nel 2015, quando Kawabe Ichiko e Hasegawa Yoshinori (Wakaba Ryūya) sono una coppia di giovani dalla routine convenzionale e dalla vita relativamente tranquilla. L’equilibrio tra i due si rompe quando Yoshinori chiede a Ichiko di sposarlo, innescando una reazione a catena che porterà la ragazza a fuggire misteriosamente senza fornire spiegazioni: inizia così il viaggio a ritroso nel passato di lei, fatto di testimonianze contrastanti e salti temporali.
Il quadro che ne emerge è volutamente ambiguo: Yoshinori, con il non sempre utile aiuto della polizia, ricostruisce i momenti essenziali di una vita dedicata alla fuga continua, nel disperato tentativo di Ichiko di affermare la propria identità, costantemente minacciata da individui violenti nel contesto di una famiglia disfunzionale.
Il passato segreto della protagonista, infatti, ruota attorno a uno scambio di identità nato da esigenze puramente burocratiche: per tutta la vita Ichiko è stata costretta ad assumere l’identità della sorella minore Tsukiko, affetta da distrofia muscolare di Fukuyama, per avere un riconoscimento a livello legale e sociale – nonché per avere accesso a medicinali e medico di base all’interno del sistema sanitario nazionale.
L’espediente narrativo funziona come pretesto per mettere in luce le problematiche legate al koseki, il registro familiare giapponese all’interno del quale vengono registrati matrimoni, nascite e morti dei membri del nucleo familiare. Il sistema è a oggi tuttora in vigore, e sono in molti a sollevare critiche sul suo uso per la sua arretratezza e per la potenziale discriminazione a cui sottopone principalmente coloro che, per scelte di vita o vissuto personale, non si conformano all’ideale di famiglia normativa – da genitori single a figli nati da relazioni extraconiugali.
È proprio questa dinamica di marginalità che la pellicola, nelle sue parti più riuscite, riesce a mettere in luce, evidenziando proprio quegli spazi bui e liminali della burocrazia giapponese dove le persone si perdono: lasciata a sé stessa nel tritacarne burocratico, Ichiko vive un’escalation di violenza all’interno di quello che dovrebbe essere lo spazio safe dello uchi, la casa familiare. Prima attraverso la relazione abusiva con Koizumi (Watanabe Daichi), l’agente dei servizi sociali che approfitta della debolezza della madre prima e che tenta poi di abusare della protagonista, e in seguito con il rapporto tossico con il compagno di classe Kita (Morinaga Yūki), ossessionato dalla ragazza al punto di diventare uno stalker. Lo stesso rapporto con la sorella disabile è problematizzato: presenza opprimente nella vita della ragazza, la morte di Tsukiko è vista dalla protagonista e dalla madre come liberatoria, senza che mai venga esplicitato quanto la stessa Ichiko sia stata responsabile nella morte della sorella che, costretta a letto dalla malattia, rimane senza ossigeno.
Dopo la morte di Tsukiko comincia per Ichiko, rimasta senza documenti, un’ossessiva e schizofrenica ricerca di affermazione sociale e legale, attraverso il tentativo di iscriversi a un’anagrafe comune. Il tentativo di affermare la propria identità però cela la disperata fuga dal fantasma della sorella: Ichiko vuole infatti smettere di essere “Tsukiko” e finalmente vivere la propria vita, cercando affermazione attraverso il lavoro in una pasticceria prima e in una relazione affettiva con Yoshinori poi, senza mai però riuscirci veramente. La ragazza non parla mai del proprio passato al fidanzato, evitando categoricamente tutte quelle situazioni in cui la propria “invisibilità” sociale potrebbe mostrarsi come tale – rifiuta ad esempio le cure mediche, ben consapevole dei rischi – e il suo castello di carte minuziosamente costruito negli anni crolla nel momento in cui lui le propone il matrimonio: consapevole che il suo idillio è finito, fugge.
Curiosamente, la pièce teatrale del 2015 da cui è tratta la pellicola non è la prima opera che narra la vicenda di una giovane, resa invisibile dalla macchina burocratica, che si appropria di altre identità per poter sopravvivere: Kasha (pubblicato in italiano come Il passato di Shoko) è un romanzo del 1992 di Miyabe Miyuki che intreccia la vicenda personale di Shinjō Kyōko all’instabilità sociale ed economica creata dallo scoppio all’inizio degli anni Novanta della baburu keiki, la bolla economica giapponese, seguito da un lungo periodo di stagnazione che ha dato vita al cosiddetto “decennio perduto” (ushinawareta jūnen) – anni di crisi i cui effetti sono ancora visibili oggi.
Come Ichiko, anche Kyōko è costretta al nomadismo, trafugando identità di donne decedute in un’esistenza ai margini della società che spesso e volentieri la porta a compiere azioni ai limiti della legalità e della morale. Il quadro che emerge da queste opere è lugubre e fortemente critico della società giapponese contemporanea: cresciute in un’economia dallo sviluppo spropositato e fuori controllo, il suo conseguente crollo ha gettato le protagoniste nell’instabilità economica e sociale, ma soprattutto identitaria.
Gli anni Novanta infatti, oltre a segnare un punto di non ritorno a livello finanziario, hanno portato una profonda crisi nella struttura familiare: le famiglie, ormai non più capaci di rispecchiare il modello convenzionale e ormai affermato del padre salaryman e moglie casalinga, si spaccano, creando un divario tra l’ideale del koseki e la realtà della situazione attuale. È il caso di Kyōko ne Il passato di Shoko, i cui genitori vengono a mancare prematuramente, ed è il caso di Ichiko nel film, costretta a vivere in situazioni precarie la propria infanzia e adolescenza.
Entrambe sceglieranno, come ultima spiaggia, la via dell’omicidio per tentare di salvare le proprie esistenze, individuando una giovane di cui far sparire le tracce per poi assumerne l’identità. A differenza del romanzo, però, dove l’impianto da crime story si completa con la risoluzione del caso e la catarsi finale, la pellicola si chiude in maniera ambigua, senza che lo spettatore venga a sapere il destino ultimo della protagonista.
Nella scena che chiude il film, Ichiko percorre da sola una strada deserta: solitaria e respingente come ha vissuto gran parte della propria esistenza, la macchina da presa la riprende alle spalle mentre ancora una volta abbandona quei pochi legami che ha creato per darsi alla fuga.