Una mattina, la giovanissima Kaede scopre che il padre è scomparso senza lasciare traccia: parte allora alla sua ricerca, senza sapere che questa la porterà a scoprire i lati più sinistri dell'animo umano. Al suo secondo lungometraggio come regista, Katayama Shinzо̄ ci narra una storia di violenza e solitudine, aprendo uno squarcio sull'abisso della disperazione umana, più nero e profondo che mai.
Missing (さがす Sagasu, lett. “Cercare”) ci porta nella periferia di Osaka, nei vicoli poco illuminati e luoghi di ritrovo abituale di senzatetto e giovani senza dimora: qui, ai limiti della povertà, vivono Harada Kaede (Itо̄ Aoi) e suo padre Satoshi (Satо̄ Jirо̄). Ragazza problematica, Kaede deve non solo frequentare la scuola ma anche prendersi cura del padre depresso, alcolizzato e con una pericolosa tendenza alla cleptomania e per questo Kaede è spesso costretta a scusarsi con i negozianti della zona per i continui e ripetuti furtarelli del padre.
Le cose cambiano quando una mattina Satoshi sparisce misteriosamente senza lasciare indizi. Kaede inizia così la disperata ricerca dell'uomo, che la porta a scontrarsi con gli amici, l'insegnante, le istituzioni. La scelta di non abbandonare il padre — che, in fondo, cos'è se non un ubriacone? — la porta a vivere sulla propria pelle il trattamento riservato a chi è già considerato un peso per la società giapponese: viene scoraggiata, ignorata, vista come una mocciosa da coloro che dovrebbero aiutarla e come una ragazza problematica da disciplinare dal convento di suore che metterla in clausura. L'unico veramente pronto ad offrirle il suo aiuto è Yutaka, un compagno di scuola che ha una cotta per lei ma che allo stesso tempo rivela ben presto le proprie intenzioni poco benevole, pretendendo di riscuotere immediatamente e in natura il prezzo del suo aiuto: sola e vulnerabile, incapace di rivolgersi a qualcun altro, Kaede cede pur di avere al suo fianco un volto amico.
Ben presto i due ragazzi scoprono che il destino di Satoshi è legato a quello di Yamauchi Terumi, un serial killer proveniente da Tokyo su cui pende una grossa taglia e che lo stesso Satoshi aveva immaginato di poter catturare, intascando i soldi e saldando tutti i propri debiti. È a questo punto che lo spettatore viene scaraventato nella torbida storia dei due uomini, legati da un reciproco desiderio di sangue e vendetta alimentato dalla disperazione che getta Satoshi — forse l'unico dei due che ha ancora qualcosa da perdere — in una spirale senza fondo di violenza e delitti, dove l'unico modo per uscirne sembra commettere violenze ancora più efferate. La pellicola ci riporta allora indietro nel tempo, a pochi mesi prima: Satoshi e Kimiko, la madre di Kaede, gestiscono un club di ping pong e, sebbene con qualche difficoltà economica, conducono una vita apparentemente normale. L'idillio si rompe quando a Kimiko viene diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica che costringe lei su una sedia a rotelle e il marito ad accudirla ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. La quotidianità diventa insopportabile e lo stesso Satoshi perde quella volontà di ferro che lo aveva accompagnato nei primi stadi della degenza. È in questo momento — nel momento della sua più profonda disperazione — che Yamauchi entra nella sua vita, attirato dal dolore come una falena a una fonte di luce. Originario di Tokyo, Yamauchi si è rifugiato nel Kansai per sfuggire a un'accusa di tentato omicidio; spinto da pulsioni sadiche, il ragazzo gode nel tormentare il prossimo, torturandolo fisicamente per poi ucciderlo, completando la sua opera facendo indossare alle vittime due candide calze bianche. Spacciandosi per infermiere, Yamauchi manipola Satoshi, convincendolo a mettere la vita della moglie nelle sue mani, facendo passare l'omicidio della donna per un atto di misericordia nei confronti di un essere umano sofferente.
Comincia così un rapporto malsano tra Satoshi e Yamauchi: alimentati dalla volontà di “salvare” i malati dalla sofferenza e dal dolore, pongono fine alle vite di persone affette da malattie terminali. La via d'uscita per quello che era in passato un timido padre sembra ormai lontana, soprattutto quando entrano in gioco il denaro e l'enorme taglia che pende su Yamauchi: Satoshi arriva così ad architettare un complesso piano per incastrarlo e intascare la somma che potrebbe aggiustare ogni cosa.
Emblematica la scena finale: quando tutto sembra essere tornato alla normalità, è la realtà a distruggere qualsiasi parvenza di ricomposizione familiare e a dimostrare che non tutti i peccati dei padri ricadono sui figli e che alla fine bisogna pagare il prezzo delle proprie azioni.
Nelle parole del regista, tutti i personaggi in Missing sono alla costante ricerca di qualcosa, qualcosa che appunto manca: è proprio questa ricerca che li porta a scontrarsi con la dura realtà del quotidiano, della povertà, del degrado, della marginalità. Una ricerca che li porta a chiedersi: fino a dove siamo disposti a spingerci per ottenere qualcosa che vogliamo quando questo qualcosa supera la soglia della legalità e della moralità? Siamo in grado di sopportare il peso delle nostre scelte, di sforare in uno spazio dove categorie come "bene" o "male" non hanno più valore assoluto e dove la bussola della coscienza ha perso il suo ago?
Missing dimostra che non tutti i desideri nati dalle buone intenzioni rimangono tali e che non c'è niente di bianco o nero nella realtà umana. Satoshi avrebbe voluto soltanto salvare la moglie dalla malattia, Kaede ritrovare il padre scomparso, Yutaka avere una ragazza e forse anche Kimiko desiderava soltanto lasciare questo mondo senza soffrire troppo o far soffrire i suoi cari. La vera protagonista della pellicola è la debolezza, in tutta la sua umanità e libera da uno sguardo giudice che ci mostra in maniera disarmante come l'essere umano, in preda alla morsa della disperazione e del dolore più cieco, possa rivelarsi vittima delle proprie pulsioni e allo stesso tempo autore diabolico della più fredda e glaciale vendetta.