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NipPop x FEFF 23 – Office Royale

23 Luglio 2021
Lisa Stivè

Nel mondo gretto e spietato delle lotte tra bande di yankī, dove solo i più forti sopravvivono, schiere di gang rivali si preparano all’ennesima lotta per la sopravvivenza a suon di pugni e calci… Scontro tra famiglie rivali di yakuza? No, solo una normalissima giornata di lavoro per le impiegate dell’azienda Mitsufuji!

Presentato al Far East Film Festival 2021 di Udine, Office Royale (Jigoku no hanazono 地獄の花園) di Seki Kazuaki è esagerato, paradossale e quasi slapstick, e come il mondo della delinquenza giovanile a cui si ispira si rifiuta di obbedire a qualsiasi regola: (ri)appropriandosi e abbattendo numerosi clichés della cultura giapponese, dalla sottocultura bōsōzoku al manga shōnen, getta al vento qualsiasi preconcetto e stereotipo sulle Office Ladies, le impiegate delle aziende giapponesi, per farle rinascere come mitiche eroine della contemporaneità.

Tanaka Naoko ha 26 anni ed è una normale OL come tante altre: anonima ma efficiente, puntuale e ben vestita, interessata al gossip in azienda come all’ultima dieta pubblicizzata sulle riviste. È una di quelle “normali”, lontana anni luce dal mondo delle “altre”. Esiste infatti un mondo parallelo all’interno dell’azienda, violento e spietato, un mondo di prede e cacciatrici, dove solo le più temerarie e combattive riescono a sopravvivere: la Mitsufuji è infatti dominata da tre fazioni interne, ognuna capitanata da una riottosa yankī, che si danno battaglia quotidianamente in nome della supremazia e del potere.

Questo equilibrio viene però rotto dall’arrivo di Hōjō Ran, la nuova impiegata che – in perfetto stile shōnen – non si piega alle dinamiche di sopraffazione e di bullismo e che riesce in breve tempo, grazie alla sua forza sovrumana, a trionfare sulle rivali diventando la leader indiscussa dell’azienda. Ran unisce le gang rivali e inaugura dunque alla Mitsufuji un periodo di pace, destinato però a non durare: venute a conoscenza della sua forza, le bande delle altre aziende si fanno avanti per spodestarla dal suo trono, in un crescendo di lotte acrobatiche che terminano inevitabilmente con la sconfitta e la fuga delle rivali. In queste lotte rimane coinvolta anche Naoko, rapita dalle OL dell’azienda Tomsun per la sua amicizia con Ran. Usata come ostaggio e merce di scambio, Naoko rivela allora la sua vera natura: possiede anche lei una forza sovrumana, e in men che non si dica mette fuori gioco la gang rivale, trasformandosi da vittima in carnefice, da semplice damsel in distress a protagonista. Naoko però subito dopo cerca disperatamente di tornare alla sua vita di OL innocente e indifesa, senza rivelare a nessuno cosa si cela dietro la sua apparente debolezza: cresciuta in una famiglia di yankī, la sua unica aspirazione era potersi lasciare alle spalle il mondo della violenza e diventare una OL “normale”, conformandosi alle aspettative della società, e magari avere una vita tranquilla, con un bel lavoro, una bella casa e un bel marito.


Nonostante il potenziale di critica sociale e gli spunti di riflessione circa la realtà delle condizioni lavorative nel Giappone contemporaneo, il film si dimostra una pellicola di puro intrattenimento dai chiari intenti parodistici – dalle esagerate scene di combattimenti volanti fino al dualismo nella Office Lady obbediente e formale che in un attimo si trasforma in una sboccata delinquente – senza soffermarsi mai sulla realtà della discriminazione di genere che permea il mondo delle OL. Tuttavia Office Royale si chiude su un finale ambiguo: Naoko, che finalmente ha accettato di non appartenere al mondo della “normalità”, dopo aver lottato contro le OL più forti del Giappone, viene sconfitta da Ran che, in un percorso degno di un protagonista di un manga shōnen, ha affrontato un periodo di dubbi e rivalutazioni per poter emergere come protagonista assoluta della trama. Dopo essere uscita allo scoperto e aver abbracciato la propria natura di combattente, Naoko deve comunque accettare di sottomettersi alle regole della società patriarcale e del mondo delle OL dove la violenza – e dunque la propria autodeterminazione – non aiuta a realizzare se stessi.

 

 

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