Una pacifica cittadina di mare, sei ex-detenuti, uno zelante impiegato comunale e un insolito mostro protettore: questi gli ingredienti del nuovo film di Yoshida Daihachi che abbiamo visto per voi al FEFF20 in anteprima per l’Europa.
The Scythian Lamb (Hitsuji no ki 羊の木), il film di Yoshida Daihachi presentato ieri alla ventesima edizione del Far East Film Festival e tratto dall’omonimo manga di Yamagami Tatsuhiko e Igarashi Mikio, colpisce per la maestria con la quale il regista gioca con i diversi generi cinematografici, mixando ingredienti del thriller, della black comedy, del dramma sociale e perfino del kaijū eiga.
La vicenda si dipana attorno alle figure di sei ex-detenuti in libertà condizionata che vengono accolti come nuovi residenti in una tranquilla cittadina di mare: il barbiere Fukumoto (l’attore Mizusawa Shingo), la cui sete di libertà si traduce nella fame insaziabile d’aria, di cibo e di saké; la stramba Kurimoto (Ichikawa Mikako) che, spaventata da se stessa al punto di evitare qualunque contatto umano, riversa la sua capacità di amare sugli animali morti – compreso il pesce acquistato al supermercato per la cena – a cui offre sepoltura nel cortile della sua casa; l’ex yakuza Ono (Tanaka Min), una cicatrice frastagliata ad attraversargli lo sguardo, determinato a cambiare vita; l’ambiguo Sugiyama (Kitamura Kazuki) e la seducente Ota (Yuka), che trova l’amore in un uomo anziano e malato; e infine Miyakoshi Ichirō (Matsuda Ryūhei, già memorabile interprete di Gohatto, cult di Nagisa Oshima del 1999), che più degli altri sembra aprirsi alla vita in quel luogo dove gli abitanti sono brave persone, e il pesce è buono, come ripete diligente il protagonista, Tsukisue (l’attore e idol pop Nishikido Ryō), impiegato comunale e trait d’union fra i vari e stravaganti personaggi arrivati a movimentare la sonnolenta cittadina.
Ognuno degli ex-detenuti ha la propria storia, un passato ingombrante su cui grava l’ombra di un crimine commesso per il piacere della violenza o in nome di un istinto prepotente di sopravvivenza, per reazione alle pressioni e alla crudeltà di un contesto sociale del quale sono vittime.
Non tutte le figure emergono delineate a tutto tondo, qualcuna rimane bidimensionale, proprio come una vignetta sulla pagina di un manga, ma Yoshida tiene saldo il filo delle vicende che si sfiorano, si intrecciano e si rincorrono, regalandoci un film godibile, con un buon ritmo, sottolineato da una notevole colonna sonora. E non manca nemmeno il colpo di scena, che spezza il drammatico crescendo finale con un colpo di coda degno della migliore black comedy, con il quale il nume tutelare del luogo, il mostro Nororo, in modo decisamente inatteso e originale ripristina l’equilibrio e riconnette i personaggi alla propria umanità e al futuro. Come gli agnelli di Scizia del titolo, un riferimento all’Agnello Vegetale della Tartaria, pianta mitologica dell’Asia Centrale, il cui frutto era una pecora viva, destinata a morire se da questa separata.