Fullmetal Alchemist (Hagane no rekinjutsushi鋼の錬金術師) è una di quelle serie ascese ormai da tempo nell’olimpo dei manga, acclamata in tutto il mondo e spesso imitata con scarso successo. Una garanzia in fatto di intrattenimento, caratterizzata da un tratto distintivo e inimitabile che vede luce per la prima volta nel 2001, dalla mano ispirata della mangaka Hiromu Arakawa 荒川弘. Ne sono stati tratti serie animate, videogiochi, spinoff, romanzi, e anche, come in questo caso, adattamenti live action.
L’opera che ha reso celebre la mangaka originaria del freddo Hokkaido si compone di ben 27 volumi che inscenano l’avventura steampunkdi due fratelli, Edward ed Alphonse, alla ricerca di una fantomatica pietra filosofale capace di rimediare ai loro tragici errori, in quella che sembra un’Europa novecentesca dilaniata dalle guerre civili e dove l’alchimia, intesa come spettacolare scienza (e non magia) basata sulla trasmutazione di oggetti nel rispetto del cosiddetto “principio dello scambio equivalente”, trova applicazioni anche in campo bellico.
Il successo che Fullmetal Alchemist riscuote ancora negli anni, e la sacralità che riveste agli occhi di milioni di fan complicano notevolmente il lavoro affidato agli sceneggiatori del film diretto da Fumihiko Sori e distribuito da Warner Bros nel 2017, giunto in Italia grazie alla piattaforma online di Netflix. Comprimere un’opera tanto complessa in appena due ore di girato è il limite con cui gli addetti hanno dovuto fare i conti, e i difetti, numerosi, sono evidenti sin dalle prime scene.
I buchi nella trama e le incongruenze fanno storcere il naso ai più appassionati, confondendo invece i neofiti e gli spettatori occasionali. Pur restando abbastanza fedele all’opera originale, ne presenta una porzione decisamente limitata, insufficiente a garantire un senso logico alla narrazione nelle immagini presentate che, pur molto suggestive, inscenano solo i passaggi più salienti, visivamente più inquietanti e spettacolari, tratti dalle vignette di Arakawa.
La trama orizzontale si riduce a una semplice linea retta, troppo sottile per far spazio agli altri personaggi carismatici che caratterizzano la serie, alle introspezioni dei protagonisti e delle loro controparti oscure, agli amori e alle avventure, come se la mano degli sviluppatori avesse intenzionalmente sciolto i nodi e gli intrecci di un’avventura unica nel suo genere per facilitare il processo creativo e dar maggior risalto a una discreta CGI che, nonostante l’uso esasperato, non disturba troppo (Al, il fratello minore la cui anima è legata a un’armatura vuota, ad esempio, è interamente costruito in computer grafica).
Doverosa una menzione per i costumi e le ambientazioni, che rappresentano il vero punto di forza della pellicola girata tra l’Italia – nelle vie dell’incantevole Volterra – e il Giappone.
Particolarmente convincenti inoltre le performance attoriali dei protagonisti, di Ryosuke Yamada, membro del gruppo idol Hey! Say! JUMP, e dell’attrice e modella Tsubasa Honda. La loro espressività, l’andatura e il modo di parlare rispecchiano perfettamente i loro corrispettivi animati, un apprezzabile tributo per tutti i sostenitori della serie ai quali il lungometraggio è evidentemente dedicato.
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