Un foglio, bianco come una distesa innevata. Una penna, per riavvolgere i fili della memoria. Una lingua, per toccare le parti più intime e tenere di se stessi. Una storia lunga un secolo, che parla di scrittura, linguaggi segreti, sogni di neve, confini valicati, nata dalla creatività poetica e linguistica di Tawada Yōko. Tutto questo è Memorie di un’orsa polare.
Memorie di un’orsa polare, edito da Guanda Editore nel 2017, tradotto dal tedesco da Alessandra Iadicicco, è un romanzo ironico e straniante a tre voci, che segue da un capo all’altro del mondo la storia di una famiglia di tre generazioni di orsi polari. Tawada Yōko è una scrittrice bilingue poliedrica, ben nota in Giappone e all’estero per la ricchezza creativa e sperimentale della sua espressione letteraria, inserita a pieno titolo nel quadro della World literature.
Diventare una luna piena: la fantasia creativa di Tawada Yōko
“Qualcuno mi fece il solletico dietro le orecchie, sotto le ascelle, mi appallottolai, divenni una luna piena e rotolai sul pavimento. Forse nel frattempo lanciai un gridolino, con voce roca. Poi allungai il didietro verso il cielo e cacciai la testa sotto il ventre: adesso ero una falce di luna.”
La produzione letteraria di Tawada Yōko vive a metà tra due lingue e due culture, in una specie di spazio ‘in-between’ trans-culturale, dove lasciar fluire liberamente la propria immaginazione, oltrepassando i confini geografici, linguistici, culturali, per approdare in un mondo altro, dove la lingua assume nuovi significati e dà vita a scenari surreali e mai visti.
Nata a Tokyo nel 1960, in Giappone studia letteratura russa e tedesca. Nel 1982 sceglie di trasferirsi in Germania, dove vive tuttora. È proprio qui che ha inizio il suo esordio letterario, con la pubblicazione di romanzi, racconti, saggi, poesie in entrambe le lingue, e ricevendo numerosi riconoscimenti sia in patria che all’estero.
Il processo creativo comincia con la migrazione: un’esperienza che apre la via alla parola letteraria, dove Tawada assume l’identità di scrittrice migrante, espandendo le possibilità dell’immaginazione letteraria nella quale la lingua riveste un ruolo centrale. Scrivere in tedesco e tradursi in giapponese, oppure scrivere in giapponese e ritradursi in tedesco, conduce all’annullamento dei confini e alla creazione di un vuoto che rappresenta la fonte di ispirazione della sua scrittura. Una migrazione, quindi, non più solo spaziale, ma linguistica e letteraria.
In questo scenario si colloca Memorie di un’orsa polare, romanzo tripartito che parla di empatia e solidarietà, ritraendo un’insolita famiglia di tre generazioni di orsi polari: la matriarca, la figlia Tosca, e suo figlio, il piccolo Knut, celebre orsetto dello zoo di Berlino. Si tratta di un testo ‘doubly translated’, nel senso che Tawada lo ha scritto inizialmente in giapponese, per poi tradurlo lei stessa in tedesco. Rispetto al titolo scelto per la pubblicazione italiana, quello originale del romanzo pubblicato nel 2011 in giapponese Yuki no renshūsei (lett. “Gli apprendisti della neve”) e nel 2014 in tedesco Etüden im Schnee, risulta più adatto a tratteggiare i due aspetti che costituiscono il filo rosso dell’intera narrazione: l’esercizio, quello acrobatico del circo e quello letterario concretizzato nell’attività di scrittura; la neve, o meglio, il sogno della neve. Neve, che non hanno mai visto e conosciuto, in quanto orsi cresciuti in cattività nel contesto umano, lontani dal loro habitat naturale.
Una storia realistica e poetica che abbraccia un secolo e tre generazioni di orsi mai stati al Polo Nord, che ha inizio nella Russia sovietica del dopoguerra, per approdare nella Germania dell’ovest qualche decennio dopo la caduta del muro di Berlino.
Tawada ci prende per mano e ci accompagna nell’incontro con tre amabili orsi bianchi dal talento eccezionale, attraverso salti nel tempo e abili cambiamenti di punto di vista che permettono di instaurare un contatto diretto con la voce e i pensieri di questi atipici protagonisti.
La scrittura: un’acrobazia pericolosa
“Scrivere: un’attività inquietante. Quando fissai la frase che avevo appena buttato giù, mi vennero le vertigini. Dove mi trovo ora esattamente? Sono entrata nella mia storia e sono scomparsa da qui. Per tornare, ho strappato lo sguardo dal manoscritto, l’ho rivolto verso la finestra finché non mi sono ritrovata nel presente. Dov’è “qui” però? Quando è “adesso”?”
La prima voce è quella della matriarca, stella del circo sovietico, che passa dagli spettacoli acrobatici di Mosca a una sensazionale carriera di scrittrice tra Berlino e il Canada. Costretta a ritirarsi a causa di un infortunio, scopre un nuovo entusiasmo: ritrovarsi a tu per tu con un foglio bianco da riempire e una penna, per raccontare la sua storia.
Scrivere l’autobiografia cambierà la sua vita: farà di lei un’autrice di successo, le farà conoscere l’esilio, le farà capire cosa significa rappresentare una “minoranza etnica” o sentirsi un “ibrido”, cosa comporta vivere in una lingua straniera e abbandonare la propria. L’allontanamento consapevole e volontario dalla lingua madre, il russo, e la scelta di imparare una nuova lingua, il tedesco, si presenta come un espediente per ovviare alla sua difficoltà di tenere insieme i fili della memoria di ciò che era prima di ritrovarsi nella condizione straniante dell’esilio.
“Prima del mio esilio avevo tanto da scrivere. Gli argomenti di cui scrivere si moltiplicavano come vermi su un cadavere. Ma da quando sono qui non ho più nessun contatto con ciò che ero. Come se i fili della memoria fossero stati tagliati. Non riesco più ad andare avanti.”
Un senso di distacco e di perdita, che dà vita a forme nuove, scenari sconosciuti, possibilità originali di essere e di comunicare. Il senso di vuoto in Tawada non ha nulla di oscuro o negativo, anzi è il nucleo della sua ricchezza creativa, il varco attraverso il quale dialogare con la sua immaginazione letteraria, dove la lingua rappresenta la linfa vitale.
“[…] voglio un volante con il quale poter guidare il mio destino. Per quello dovevo continuare a scrivere l’autobiografia. La mia bici è la lingua. Non scriverò del passato, ma di tutto ciò che deve ancora capitarmi. La mia vita si svolgerà esattamente come io avrò stabilito per iscritto”.
Un bacio dolce come zucchero
“[…] alzo lo sguardo e incrocio due neri occhi di perla e un naso umido. Mi metto subito una zolletta di zucchero sulla lingua e la allungo verso di lei. L’orsa polare si china lentamente verso di me. […] Sbuffa, dal muso si spande un potente profumo di neve. Poi con la lingua mi ruba con destrezza e rapidità la zolletta di zucchero dalla cavità più intima della mia bocca. Ma una bocca ha toccato l’altra oppure no?”
Così nasce Tosca, la seconda voce della nostra storia. Passando dal Canada alla Germania orientale, Tosca diventa un’esperta ballerina di tango nel circo, stringendo un legame profondo con la sua addestratrice, una piccola umana dagli occhi azzurri come il cielo di nome Barbara. Le due si ritrovano legate indissolubilmente nei sogni e nei pensieri dal “bacio della morte”: un bacio pericoloso, ma dolce come la zolletta di zucchero che l’orsa ruba abilmente dalla bocca della sua amica umana. Un attimo di intesa e di profonda libertà, l’apice del loro spettacolo. Le loro anime possono così comprendersi e dialogare, in una lingua che solo loro conoscono e che non risponde più a divisioni geografiche, etniche o politiche. È una voce doppia, in una dimensione onirica nella quale la soggettività dell’umana e quella dell’orsa si intrecciano, sovrapponendosi armoniosamente in un’unica entità.
“Là, nell’oscurità, le grammatiche delle diverse lingue perdevano il loro colore, si fondevano, si mescolavano, tornavano a congelarsi, venivano sospinte in mare, verso i lastroni di ghiaccio vaganti. Ero seduta sulla stessa lastra di ghiaccio di Tosca e capivo ogni parola che lei mi diceva.”
Tawada non smette mai di sorprendere il lettore, trasportandolo in un mondo straniante, dove perdersi per ritrovarsi. Inizialmente sembra che sia Barbara a riferire la sua esperienza con Tosca. Ma è davvero così?
Tawada gioca con l’ambiguità propria della lingua giapponese per confondere i confini temporali e personali della storia che sta scrivendo. Veniamo a scoprire che la voce narrante in realtà appartiene a Tosca: anche lei, come la madre, sceglie di prendere in mano una penna per riavvolgere i fili della memoria che la legano alla sua piccola amica, portandola a perdere i suoi istinti naturali incluso quello per la maternità. Attraverso parole scritte nero su bianco, il ricordo del loro bacio spettacolare e della loro insolita amicizia resterà vivo per sempre.
In un’atmosfera surreale in stile kafkiano, nella quale si traduce la permeabilità del mondo umano e non umano, del sé e del diverso, dove orsi nivei scrivono, leggono, frequentano scuole, librerie e conferenze, Tawada delicatamente introduce elementi realistici, legati al tema della migrazione, dell’integrazione e del cambiamento climatico. Quest’ultimo si concretizza principalmente nella figura di Knut, abbandonato dalla madre e allevato da un umano, divenuto il simbolo del disastro ambientale della nostra epoca. Ma la sua, è tutta un’altra storia.
La voglia di latte, la scoperta dell’“io” e il sogno del Polo Nord
“Il liquido che gli gocciolava dal mento era latte oppure bava? Raccolse tutte le sue forze sulle labbra, ingoiò e sentì quel tepore andar giù e atterrare nello stomaco. […] C’erano due braccia pelose, e da un braccio scorreva il latte, mentre l’altro teneva il corpo del poppante in una posizione comoda.”
Il terzo protagonista della saga familiare ritratta da Tawada è un orsetto bianco come la neve, curioso e sognatore: Knut, in tedesco “coccola”, rifiutato dalla madre Tosca e allevato da un altro mammifero, Matthias, il custode dello zoo di Berlino. Knut cresce grazie alle attenzioni amabili della “mamma”, curiosando col musino di qua e di là e sviluppando il forte desiderio di scoprire il mondo oltre le quattro mura in cui si trova. Un orsetto tenero, la vera star dello zoo di Berlino, che attira su di sé l’attenzione dei media, in quanto cucciolo orfano, sopravvissuto grazie all’affetto di un essere umano.
Anche in questo caso, la prospettiva da cui la storia viene raccontata è mutevole e si intreccia alla crescita fisica e mentale del piccolo orso, a mano a mano che prende coscienza di sé e della sua capacità di comunicare con gli altri, animali o esseri umani che siano. Proprio grazie al dialogo con gli altri animali dello zoo, l’orsetto scopre una parola magica, “io”, con la quale poter finalmente esprimere se stesso. Con la scoperta dell’io, Knut si appropria della sua storia e racconta con la propria voce il suo sogno, la neve mai vista nello scenario latteo del Polo Nord.
Memorie di un’orsa polare ci interroga su cosa significa essere uomini e donne nella nostra epoca, ibridi, estranei in un mondo in costante cambiamento, alla ricerca di noi stessi. Una favola provocatoria e attuale, attraverso la quale osservare gli esseri umani con occhi curiosi e disincantati, superando le barriere linguistiche, sociali, politiche del mondo umano, proiettando un’unica dimensione inclusiva all’interno della quale inseguire la propria identità.