In occasione dell’evento annuale del Cinema Ritrovato, per la sezione “Ritrovati e Restaurati”, lo scorso 26 giugno è stato proiettato al cinema Arlecchino di Bologna un grande classico della cinematografia giapponese: Ugetsu monogatari (雨月物語), conosciuto internazionalmente col semplice titolo Ugetsu e tradotto in italiano come I racconti della luna pallida d’agosto.
Ispirato a due storie dell’omonima raccolta di racconti di Ueda Akinari, (La lubricità del serpente e L’albergo di Asaji) il film può essere considerato ancora oggi, dopo più di 60 di cambiamenti nella storia del cinema dalla sua uscita, uno dei grandi capolavori della cinematografia giapponese, e non solo.
La storia è ambientata durante la terribile guerra civile che scuote il Giappone del XVI secolo, nella regione di Omi presso il lago Biwa, e parla della vita di quattro persone: l’avido artigiano di campagna Genjurō, sua moglie Miyagi, il contadino Tobei, che coltiva il sogno impossibile di diventare un grande samurai, e la moglie Ohama. La trama si dipana dalla partenza dei due uomini, che per realizzare i loro sogni di grandezza si dirigono verso la città, non esitando ad abbandonare le rispettive famiglie. La loro scelta, fatta senza la minima considerazione delle possibili conseguenze, ha un esito disastroso sui destini delle due donne, la cui vita verrà totalmente distrutta.
Allo stesso tempo, però, l’iniziale parvenza di successo raggiunto dai due uomini si sgretola rapidamente, e le illusioni si dissolvono: questo porta alla loro progressiva presa di coscienza, e al raggiungimento della saggezza. Di grande impatto nella costruzione dell’intero film, basata su un gioco di ambiguità tra realtà e fantasia, è la figura della nobildonna che seduce Genjurō quando questi arriva in città. La donna, infatti, si scopre in realtà essere il fantasma di una signora tornata sulla terra per poter finalmente essere amata da qualcuno. La liberazione da questo legame rende finalmente consapevole l’uomo della pericolosità delle illusioni, e lo convince a tornare al suo villaggio, anche se oramai è troppo tardi.
Il lungometraggio rappresenta quindi non solo una magnifica testimonianza del periodo storico che mette in scena, ma anche un’intelligente pittura psicologica di tutti i suoi personaggi. Non sono certo da meno la regia e la sceneggiatura del film, influenzato certamente dalla struttura del teatro Nō. Lo stile di Kenji Mizoguchi è come sempre incredibilmente suggestivo, con un alternarsi di sequenze “reali” e scene “fantastiche”, realizzato con una semplice quanto abile modifica al ritmo del racconto: da concitato frenetico e teso, si fa lento e fluido, quasi astratto.
Di grande impatto è anche la scenografia. Basti pensare alla scena del viaggio in barca sul lago Biwa affrontato dai quattro protagonisti per raggiungere la città: le sottili nebbie mattutine che si sollevano dalle acque creano un’atmosfera suggestiva, nella quale la barca di un pescatore viene naturalmente scambiata per una nave fantasma.