A contendersi la prima posizione al box office nipponico nel weekend del 15/16 novembre sono state due particolari lavori prodotti in Giappone, il cui debutto nelle sale è avvenuto simultaneamente: Pale moon (Kami no tsuki 紙の月) di Daihachi Yoshida e As the Gods will (Kamisama no iu tōri 神さまの言うとおり) di Miike Takashi. Entrambi provenienti dal circuito festivaliero internazionale, questi film toccano una diversità di generi la cui miscela offre ritratti dell’esistenza umana fruibili da un pubblico eterogeneo, probabile chiave del successo ottenuto.
Pale moon, in programma anche alla 32° Edizione del Torino Film Festival, ha avuto la sua anteprima mondiale lo scorso ottobre all’ultima edizione del Tokyo International Film Festival come unica opera giapponese in concorso, dove si è aggiudicato il Premio del Pubblico e per la Miglior Interprete Protagonista (la nota attrice e modella Miyazawa Rie). Il film è ambientato negli anni ‘90, dopo l’esplosione in Giappone della bolla economica, e vede come protagonista Umezawa Rika, una donna che conduce un’ordinaria vita coniugale con un marito indifferente da cui non riesce ad avere figli, adagiata nel torpore del confortevole nido piccolo-borghese. Impiegata di banca, promossa alla vendita porta a porta di prodotti finanziari e alla raccolta di depositi monetari, presto entra in contatto con un giovane studente, Kota, nipote di un suo cliente, indebitatosi fortemente per provvedere al pagamento delle rette universitarie. Questo incontro fortuito permette a Rika di immergersi in una dimensione del tutto nuova, in quanto la donna, travolta dalle attenzioni di Kota, intraprende una relazione pericolosa con il ragazzo che la sottrae alla sua condizione di atarassia domestica. Per aiutare l’amante a saldare i debiti, Rika si abbandona gradualmente all’appropriazione indebita dei depositi dei suoi clienti. Nonostante inizialmente le consideri solo dei prestiti a breve termine, si concede somme sempre più ingenti e agisce con scaltrezza nei confronti dei clienti per impossessarsene, cercando di passare inosservata all’occhio vigile delle colleghe. Rika non sembra essere cosciente del crimine e indulge nel reato acquisendo piano l’alone attraente della femme fatale (come suggerisce l’omonima canzone di Lou Reed nella stessa colonna sonora del film). Nell’infrazione della legge e nella rottura dell’equilibrio statico in cui galleggiava apparentemente priva di fluido vitale, Rika acquista una nuova energia e un’eleganza laccata ed eterea, quasi invulnerabile, e lo spettatore la segue disorientato nell’itinerario che la conduce alla costruzione di una morale propria, personale e antisociale in cui Bene e Male sono inconsistenti e sfumati. Si tratta di una morale nuova che soppianta e mette in dubbio gli insegnamenti ricevuti da Rika nella scuola cattolica della sua infanzia e che fa del principio di carità la base per una riflessione critica sull’autenticità delle intenzioni che si celano dietro all’agire umano. Fondamentalmente, nulla è importante e determinante: l’uomo fluttua tra edifici eretti da una logica malsana che sfida il Caso e reprime l’identità individuale, un’identità che subisce l’effetto soporifero di schemi il cui rispetto, in una realtà controfattuale, potrebbe non essere necessario. In questa ricerca formativa di un senso nascosto, vediamo Rika dondolare tra la materialità di hotel di lusso, abiti, ristoranti e regali costosi e la precarietà di emozioni rinate, impulsi primordiali e vividi. Il ritmo incalzante e la suspense implementata dalla colonna sonora conferiscono all’opera una patina ansiogena, e lo spettatore non sa esattamente da quali moti interiori, di disapprovazione o accettazione, è spinto verso l’assimilazione dell’etica finale.
La storia è tratta dall’omonimo romanzo di Kakuta Mitsuyo e, come sempre più frequentemente accade nel circuito artistico nipponico, i media si sovrappongono e contaminano reciprocamente: è infatti reperibile anche il dorama di Pale Moon, nel quale, ovviamente, la storia si dilata con l’arricchimento di dettagli diluibili in cinque episodi e il ritmo appare più lento e melodrammatico.
Lo stesso fenomeno di contaminazione di generi e media differenti lo si può riscontrare in As the Gods will di Miike Takashi, noto regista a cui è stato assegnato il Maverick Director Award all’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, occasione in cui ha presentato in prima mondiale quest’opera accolta con un’ovazione dai fan. As the Gods will è la trasposizione cinematografica di un manga di Akeji Fujimura, a partire dal quale Miike ha avuto ancora una volta la possibilità di guardare alla società giapponese attraverso le lenti dell’eccesso.
Così come Rika di Pale moon dà inizio alla serie turbolenta di eventi che la investono per fuggire dalla attanagliante noia domestica, allo stesso modo la Noia compare tra le prime parole proferite in As the Gods will ed è il motore immobile dello sviluppo delle vicende. Il protagonista Takahata Shun sta per iniziare la solita mattinata scolastica noiosa, eppure quest’ultima prende una piega differente rispetto all’ordinario: un Daruma (figura votiva tradizionale) compare al posto della testa del professore, facendola esplodere e costringendo tutti i gli alunni a partecipare a un gioco fatale, Darumasan ga koronda 達磨さんが転んだ (corrispettivo del nostro “Un, due, tre, stella!”), in cui dei movimenti letali causano la morte degli studenti uno a uno e il sangue sgorga, in una maniera estetizzante, sotto forma di biglie rosse. Shun vince il gioco e riesce a uscire dalla classe, incontrando subito la protagonista femminile, Ichika, con la quale tenta di fuggire e capire la causa di quegli eventi che sembrano estendersi a livello universale. Tuttavia, quello era solo il primo dei livelli da superare e il film procede come un videogioco in un climax adrenalinico ma spesso ripetitivo, con il “mostro” finale da sconfiggere a ogni piano: ora è un gigante maneki neko (gatto della fortuna), ora sono delle perfide bambole kokeshi (bambole tradizionali in legno), ora orsi polari e matrioske. Non c’è possibilità di sfuggire alle partite e gli studenti devono cercare di sopravvivere a ciò che presto scopriamo avvenire all’interno di immensi cubi che fluttuano sui cieli della terra. Tutto è seguito dal resto della popolazione tramite maxischermi e coloro che superano le prove vengono idolatrati e osannati come “figli di Dio”. Con il suo filtro sanguinario, pop e grottesco, Miike ci rende spettatori di uno show che ha un pubblico anche all’interno del film stesso tramite la diretta TV, in un tripudio metafilmico di voyeurismo e interesse sadico, in cui la forza dell’immagine supera di gran lunga quella del suo contenuto intrinseco. Si gioca con la tradizione e la si immerge in una modernità annoiata: se la noia è il punto di partenza, probabilmente è anche il punto di ritorno a cui si anela, in un percorso che sembra in moto, ma in realtà gira su sé stesso in uno sviluppo ciclico. Tuttavia, chi si cela dietro a questo piano?