Il regista Nobuhiko Ōbayashi, soprannominato The Wizard of Cinema, è stato premiato per la sua lunga carriera con il Life Achievement Award al Tokyo International Film Festival, dove ha presentato in anteprima la sua ultima fatica, Labyrinth of Cinema, un film che è una dichiarazione d’amore per il cinema e un messaggio di pace per le generazioni future.
Nobuhiko Ōbayashi, il mago del cinema
Tra le tante anime del cinema giapponese che affascinano il pubblico d’oltreoceano, un posto speciale è riservato a un particolare filone di film. Si tratta di quei film che potremmo definire weird, bizzarri: surreali, psichedelici, talvolta grotteschi, talvolta nonsense; ma sempre in grado di lasciare un segno indelebile sullo spettatore.
Da Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto, a Suicide Club di Sion Sono fino a Visitor Q di Takashi Miike, la lista è lunga. Film molto diversi tra loro, ma in cui possiamo trovare una sensibilità comune senza forzare troppo la mano; un gusto per il cinema di genere (e la commistione dei generi stessi), per la sperimentazione e la trasgressione. Se seguiamo il fil rouge di questa sensibilità, potremmo rintracciarne i padri nobili nel cinema d’avanguardia degli anni ’60. Ma il vero apripista è Hausu (1977) di Nobuhiko Obayashi.
Ōbayashi, nato nel ’38 a Onomichi (prefettura di Hiroshima), iniziò i suoi primi esperimenti artistici già da ragazzino, dedicandosi alla pittura, alla scrittura e alla musica, e coltivando un interesse precoce per il cinema, che sviluppò ulteriormente durante gli anni all’università. La sua carriera, prima di approdare al grande schermo, lo vide impegnato per molti anni come regista di spot pubblicitari e di film indipendenti.
Fu solo con Hausu che riuscì ad avere il suo primo ruolo da regista per una grande casa di produzione cinematografica, e non perse l’occasione per mettere a frutto la sua esperienza. Ōbayashi non si limitò alla regia: aveva già scritto di suo pugno la sceneggiatura, basandosi in parte sulle idee di sua figlia adolescente. Inoltre curò anche la produzione, utilizzando le tecniche che aveva appreso sui set pubblicitari – effetti speciali artigianali volutamente non realistici, sfondi dipinti iper-colorati.
Il risultato è un horror-comedy surreale, a tratti demenziale, che all’epoca lasciò basiti la critica e il pubblico. Col tempo, e grazie a una seconda distribuzione in America e Europa (nel 2009 negli USA, nel 2016 al FEFF di Udine), Hausu ha acquisito lo status di film cult ed è stato citato tra i 200 migliori film giapponesi di sempre da un’importante testata nipponica. La carriera di Ōbayashi, da allora, è proseguita su sentieri diversi, con film meno stravaganti e più impegnati; ma non ha mai rinunciato a quelle atmosfere surreali. Soprattutto, non ha rinunciato alle tematiche a lui più care: la critica alla guerra e il pacifismo, già in nuce in Hausu, dove la casa del titolo è infestata da uno spirito maligno generato dal risentimento verso la II Guerra Mondiale. Ōbayashi stesso infatti, come già detto originario della prefettura di Hiroshima, perse molti dei suoi amici d’infanzia a causa della bomba atomica.
Ōbayashi sul Red Carpet del Tokyo International Film Festival con il cast di Labyrinth of Cinema
Ōbayashi, oggi anziano, è un regista ancora prolifico: nonostante gli sia stato diagnosticato un cancro in stadio avanzato nel 2016, ha da allora portato a termine altri due film. La sua lunga carriera, che ha attraversato più di 50 anni di storia del cinema giapponese, gli è valso il soprannome di Wizard of Cinema, ed è stata premiata al Tokyo International Film Festival con il Lifetime Achievement Award. Il festival ha inoltre celebrato l’occasione con una retrospettiva sui suoi film, oltre all’anteprima assoluta del suo ultimo lavoro, Labyrinth of Cinema. Noi di NipPop siamo andati a vederlo e cercheremo di raccontarvi le nostre impressioni (senza spoiler!), sperando di poter assistere presto a una proiezione anche in Italia. Nel frattempo, vi consigliamo caldamente di recuperare Hausu (è disponibile una versione Blu-Ray con sottotitoli in inglese).
Labyrinth of Cinema
Riassumere la trama di Labyrinth of Cinema non è un’impresa facile, tanto quanto non lo è seguirla punto per punto. L’incipit è emblematico: “Questo è un film fatto per esplorare la letteratura cinematografica”, ci avvisa una scritta sullo schermo, proiettandoci da subito in una dimensione dichiaratamente metanarrativa.
Subito dopo, uno strano personaggio venuto dal futuro, che si presenta come Fanta G e che viaggia su un bizzarro veicolo nello spazio, ci informa che il cinema è una macchina del tempo. Il tempo in cui vuole portarci, quello che sarà il presente narrativo del film, sono i giorni nostri, il 2019. Il luogo è Onomichi, città natale di Ōbayashi, dove un piccolo cinema, specializzato in film di guerra, sta per chiudere; come addio, stasera ci sarà l’ultima proiezione all-night long.
Per l’occasione si radunano 4 ragazzi: Noriko, una bambina in cerca di risposte sulla sua identità e su cosa sia la guerra; Mario, appassionato di film d’azione col sogno di diventare un eroe; Hosuke, un otaku maniaco della storia del cinema; e Shigeru, wannabe yakuza figlio di un monaco buddhista.
Il film inizia con una sorta di strano musical, e Noriko entra nella pellicola per trovare le risposte alle sue domande. Ma per qualche motivo la pellicola rischia di bruciare, così Mario è costretto a seguirla nel film per tentare di salvarla, trascinando con sé anche gli altri due. I quattro ragazzi si ritrovano così ad attraversare la storia del cinema per salvare Noriko, passando dai film muti in bianco e nero, all’epoca dei talkie, fino ai film a colori.
Ma nel farlo, attraversano anche le guerre che hanno sconvolto il Giappone nell’epoca moderna: la guerra boshin del 1868, che vide i feudi di Satsuma e Chōshū schierati contro lo shogun per restaurare il potere imperiale; il conflitto Sino-Giapponese; la Battaglia di Okinawa; fino al tragico bombardamento di Hiroshima.
Quella che Ōbayashi ci racconta è una storia costellata di tragedie: dal suicidio dei samurai poco più che adolescenti del byakkotai durante l’assedio del castello di Aizu, alla tragedia delle comfort women in Manciuria, alle stragi perpetrate sui civili di Okinawa proprio dall’esercito giapponese. Lo sguardo del regista è impietoso e critico, va a toccare i tasti dolenti dell’epoca imperialista, mettendo in discussione le ideologie militariste su cui si è fondò la modernità giapponese.
Ōbayashi non nasconde la sua visione pessimistica anche sul nostro presente: l’ultimo cinema di Onomichi sta per chiudere, la memoria storica sembra essersi affievolita, e il nostro passato tragico potrebbe ripresentarsi da un giorno all’altro. Ma proprio nel cinema è racchiusa una grande speranza, quella di poter lanciare un messaggio di pace rivolto al futuro.
La macchina metanarrativa di Ōbayashi segue le vicende dei tre, disvelando a poco a poco il proprio meccanismo. Il mago del cinema trasforma la pellicola in una macchina del tempo ricorrendo alle tecniche a lui più care: un montaggio frenetico al punto da stordire, il costante uso di sfondi dipinti e collage di immagini, effetti speciali non realistici ed effetti di transizione dai colori accesissimi. E ancora, commistione di generi (dal musical allo yakuza movie), pannelli colorati che recitano le poesie di uno scrittore di inizio ‘900, continui riferimenti extradiegetici, salti temporali.
Tutto per disorientare lo spettatore e demolire la sospensione dell’incredulità, costringerci a riflettere sulla natura fittizia di quella narrazione che chiamiamo cinema. E così facendo, rivelare come il cinema possa essere “una verità costruita a partire da una bugia”. Tanto più ci rendiamo conto della finzione, tanto più ci ricordiamo che i momenti storici che i nostri tre eroi attraversano sono invece fatti realmente accaduti. E insieme a loro, dapprima divertiti ed estasiati dal fatto di trovarsi ad essere gli eroi di un film, impariamo a entrare in empatia con gli altri personaggi fittizi e a provare il loro dolore. Cosicché – questa è la speranza del regista – possiamo ricordare gli orrori della guerra e impegnarci affinché il nostro sia un futuro di pace.