«Non esiste la scrittura perfetta, così come non esiste una perfetta disperazione»
Nel 1978 Murakami Haruki, ormai trentenne, lavora gestendo un jazz bar a Tokyo, e non ha mai pensato di poter diventare uno scrittore di successo. Eppure un giorno, dopo aver ricevuto una specie di folgorante illuminazione, decide di mettersi a scrivere. A scrivere, come dice lui stesso, “sul tavolo della cucina”, di notte durante i ritagli di tempo.
E quello che ne esce sono queste due piccole perle. Ascolta la canzone del vento e Flipper (trad. di Antonietta Pastore).
Nonostante si tratti delle primissime opere uscite dalla penna dell’ormai affermato scrittore, i due romanzi non erano ancora stati pubblicati fuori dal Giappone, per volontà di Murakami stesso.
Si tratta delle sue opere di esordio, il suo trampolino di lancio, ciò che gli ha permesso di divenire lo scrittore di successo che è oggi. Sono i romanzi che gli hanno consentito di esprimere per la prima volta se stesso, nel modo a lui più consono, e quindi di crescere; e proprio di questo si tratta: romanzi di crescita.
La crescita di cui parlo è quella dei protagonisti delle storie. Infatti, i due racconti sono intimamente collegati, in quanto si sviluppano entrambi intorno alle vite di due ragazzi: uno studente inquieto che aspira a diventare scrittore e il suo amico, il Sorcio, giovane cinico, solitario e disilluso dalla vita.
Impossibile non notare le somiglianze autobiografiche tra lo studente e lo stesso Murakami, un giovane Murakami in viaggio verso un grande cambiamento, fatto di fatiche e dolorose esperienze.
E così Ascolta la canzone del vento si sviluppa in un breve arco di tempo, “questa storia inzia l’8 agosto del 1970, e finisce diciotto giorni dopo, il 26 agosto dello stesso anno”, durante il quale il protagonista, tra le numerose soste al Jay’s Bar, le bevute e le chiacchierate con l’amico Sorcio, incontra una ragazza. Una ragazza molto particolare, che inizierà a frequentare e che riporterà a galla diversi ricordi, spesso dolorosi, e stimolerà nel ragazzo importanti riflessioni.
Ed è proprio questo il punto focale dei racconti di Murakami: se state cercando azione, fatti, eventi eclatanti, allora questi racconti non fanno per voi. Perché quello che si approfondisce in Vento e Flipper è la psicologia dei personaggi, il loro stato d’animo, che spesso si manifesta in piccoli gesti, in particolari situazioni, in dialoghi che solo apparentemente possono sembrare quasi irreali, fuori dal contesto, ma che in realtà, se considerati nel quadro generale del racconto, possono, e riescono, a dire molto molto di più.
Quando scrivo qualcosa, mi torna sempre in mente quel pomeriggio d’estate. E quella tomba e la vegetazione tutt’intorno. E penso ogni volta: come sarebbe bello se potessi scrivere per le cicale, per le rane e per i ragni… e per l’erba estiva e la brezza…
Ciò che colpisce di più, tuttavia, quando ci si approccia a questi racconti, e in particolar modo se è la prima volta in assoluto che ci si accosta a un romanzo di Haruki Murakami avendo però già letto e conosciuto altri autori giapponesi, è lo stile assolutamente particolare.
Uno stile che non è affatto giapponese. Uno stile che, per questo motivo, lo ha fatto amare e odiare dai suoi connazionali.
Lui stesso ci spiega questo stile proprio nella sua introduzione alla raccolta Vento e Flipper. Ci racconta come ha iniziato la scrittura e come ha deciso di continuarla. Ci racconta la sua crescita. Una crescita travagliata, ardua, fatta di insuccessi e delusioni, ma che alla fine è riuscita a trovare la sua strada. Una strada del tutto inusuale: la tecnica di Murakami, come ci dice lui stesso, è è nata scrivendo e pensando in primo luogo in inglese. Buttare giù frasi il più semplici possibile, in una lingua straniera con cui si ha una familiarità limitata, è stato per lo scrittore l’unico modo per non ingarbugliarsi nella sua stessa scrittura.
Scrivendo in inglese e traducendo poi in giapponese, avevo voluto inventare uno stile neutro, privo di abbellimenti superflui, che mi concedesse più libertà di movimento. Non avevo cercato «una lingua giapponese che fosse meno giapponese», ma semplicemente «un linguaggio che fosse il più lontano possibile da quello letterario, che mi permettesse di scrivere un romanzo con la mia voce naturale».
È nata così una tecnica molto particolare, che si riesce a cogliere persino leggendo le sue opere in traduzione (anche se certamente non è possibile un paragone con l’impatto sul lettore giapponese).
Lo stile di Murakami può piacere o non piacere, ma resta il fatto che si adatta perfettamente ai contenuti delle sue opere, così come ai suoi personaggi e alle situazioni da lui descritte. Ed è sicuramente questo il motivo del grandissimo successo dell’autore “nato sul tavolo della cucina”.