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Modestia, equilibrio e grazia – gli ingredienti segreti del teatro che ha fatto la storia

23 Dicembre 2018
Valentina Beomonte Zobel

Saper reinterpretare spunti antichi: una caratteristica che non si applica solo alla cinematografia, alla letteratura e alla cultura pop, ma in generale a tutte le arti giapponesi. L’opera del teatro Takarazuka non fa eccezione. Una compagnia teatrale decisamente fuori dal comune, dove non ci sono attori, ma solo attrici nubili che hanno il compito di interpretare sia ruoli maschili che femminili. Fondata nel 1914, in poco più di cento anni ha rivoluzionato la storia del teatro giapponese: iniziando con un piccolo stage ricavato da una piscina al coperto, la compagnia si evoluta così tanto da riconfigurare totalmente l’aspetto della stessa cittadina di Takarazuka.

Usciti dalla stazione, infatti, ci si chiede se ci si trovi ancora in Giappone: sale da tè all’inglese, negozi in stile occidentale, l’architettura stessa degli edifici che ricorda qualche antica cittadina europea dimenticata dalla rivoluzione industriale. Chissà se il signor Kobayashi, fondatore del teatro, si aspettava tutto questo. Quel che è certo è che inizialmente il suo unico intento era stato quello di istituire il teatro come parte di una pura strategia di mercato, per attirare più passeggeri sulla linea ferroviaria di cui era il proprietario. Qualcosa deve essere cambiato nel frattempo, perché le sue ultime e più celebri parole fanno riferimento alle arti performative – il canto, la danza e la recitazione – che insieme creano brillanti fantasie sul palcoscenico. Il suo desiderio era che ogni “Takarasienne” seguisse l’etichetta e apprendesse le buone maniere, ma soprattutto che non dimenticasse la propria dignità come donna e membro della società. A oggi la compagnia costituisce la più grande attrattiva della città, e attira ogni anno migliaia di fan che arrivano qui da ogni parte del Giappone (e non solo).

 

I gruppi teatrali

Il “Takarazuka Revue”, come è stata ribattezzata la compagnia teatrale di recente, possiede alcune peculiarità uniche nel suo genere. Le attrici che interpretano i ruoli maschili vengono chiamate "otoko yaku" e sono caratterizzate solitamente da un taglio di capelli più corto, mentre le loro controparti femminili, le "musume yaku”, hanno acconciature più lunghe, che rendono più semplice per lo spettatore riconoscerle. La combinazione dei due ruoli è uno dei motivi principali della grande fama riscossa dalle attrici.

Quale dei due ruoli verrà interpretato dalla Takarasienne viene determinato in genere dalla sua altezza, dalla sua estensione vocale, dalle sue inclinazioni personali o da altri fattori. Non è insolito che alcune attrici cambino persino ruolo a metà della carriera. Attualmente la compagnia è composta da 5 troupes, ognuna con caratteristiche ben distinte: “Hana” (Fiore), “Tsuki” (Luna), “Yuki” (Neve), “Hoshi” (Stella) e “Chuu” (Cosmo), a cui si aggiunge il gruppo delle “Senka”, le specialiste che non appartengono ad alcuna troupe nello specifico ma compaiono in ogni rappresentazione per istruire le Takarasiennes più giovani e aggiungere un tocco in più a ogni performance.

Sebbene ogni rappresentazione riscuota un incredibile successo, ve ne sono alcune che hanno fatto la storia del teatro. Una di queste riguarda l’opera di letteratura classica giapponese che più si è cercato di tradurre su pellicola o sul palcoscenico nel corso dei secoli: il Genji Monogatari, la "Storia di Genji", scritta dalla dama di corte imperiale Murasaki Shikibu, incentrata su un principe profondamente sensibile alla bellezza e alla grazia in tutte le sue forme. Il Genji ha sempre trovato molte difficoltà nella sua realizzazione (teatrale e non) in quanto un personaggio dalla grazia così particolare risulta molto difficile da interpretare, per un attore di sesso maschile. Per tale motivo una delle interpretazioni migliori è proprio quella del teatro Takarazuka, che è riuscito a dare dignità e delicatezza al personaggio del principe malinconico. Ma altri capolavori della compagnia possono essere cercati anche in ambito contemporaneo, come la celeberrima messa in scena di Lady Oscar, quella più irriverente di Lupin III o quella a cui ho avuto il piacere di assistere qualche giorno fa, liberamente riadattata dal musical The Phantom of the Opera, scritto nel 1986 da Andrew Lloyd Webber, ispiratosi a sua volta all’omonimo romanzo.

 

Phantomu” – Phantom

La versione riadattata dal teatro Takarazuka può essere difficile da accettare per chi, come la sottoscritta, ha un posto nel proprio cuore riservato alla drammatica vicenda del musicista dal volto sfigurato, che vive nei sotterranei dell’Opéra di Parigi. Molto della storia originale è stato modificato, sono entrati in scena nuovi personaggi, la trama è stata “stravolta” e resa più romantica e romanzata. In parte, credo, si possa ricondurre a un tentativo degli attori di rispecchiare quelli che potrebbero esseri i gusti del pubblico giapponese. Come sempre succede quando si traspone qualcosa da una cultura “source” a una cultura “target”, raramente il risultato è del tutto identico all’originale: vi è sempre la tendenza a modificare l’opera per renderla fruibile dal maggior numero di persone possibile. Il rischio altrimenti sarebbe di non riscuotere abbastanza successo – o denaro – che valga lo sforzo impiegato. Come preannunciato prima, inoltre, saper reinterpretare spunti antichi è ciò che dà forza e caratterizza le arti giapponesi. Il saperlo fare senza paura è forse il grande merito che distingue queste rappresentazioni da quelle oltreoceano che, troppo ancorate alla tradizione e al timore di suscitare la rabbia del pubblico, non sono in grado di evolversi e stare al passo con i tempi.

Superato il primo impatto con un approccio totalmente nuovo, sono stata catturata dalla maestria, dalla tecnica, dalla coordinazione di una troupe a dir poco fenomenale. Ogni attrice era la piccola tessera di un puzzle che, incastrato agli altri senza la minima forzatura, dava vita a uno spettacolo di luci, colori, costumi ed estensioni vocali senza paragoni. La troupe “Neve” si è distinta per l’attenzione particolare che ha dedicato alle scenografie, ma soprattutto per la straordinaria capacità delle ballerine in scena di muovere come un sol uomo – anzi, una sola donna – con una coordinazione e una fluidità a cui raramente mi è capitato di assistere. Il fatto che questa pièce venga rappresentata due volte al giorno, ogni giorno, per un mese (durata complessiva di ogni spettacolo: 2 ore e mezza), con soltanto un giorno alla settimana di riposo, è solo uno dei tanti motivi che possono spiegare il livello di tecnica dimostrata sul palcoscenico. Sicuramente il talento, la passione e un addestramento rigidissimo (che porta le attrici fin da giovani a tentare l’ammissione alla Takarazuka Music School) hanno fatto il resto.

 

Conclusioni

Alcuni dicono che la fama del teatro Takarazuka sia legata semplicemente alla popolarità delle attrici, al marketing e al sistema dei fan club. A tal proposito non mancano mai gruppi di donne che partecipano freneticamente a ogni rappresentazione, fanno incetta di gadget nei negozi all’interno della struttura, si assiepano all’uscita dal teatro, preparano bentō boxes e si offrono di fare da chauffeur per le loro attrici preferite.

C’è chi, comeTatsuya Kusaba (ricercatore di storia del Takarazuka) addirittura ritiene che l’unico motivo del successo della compagnia sia il senso di vicinanza delle fan con le loro attrici preferite, a cui possono stringere la mano e scrivere lettere appassionate. O vi è anche chi, come Leonie Stickland, ritiene che la popolarità della compagnia sia dovuta al fatto che le donne in Giappone non abbiano ancora ottenuto gli stessi diritti (legali e sociali) delle loro controparti maschili. Le Takarasiennes, in questo caso, interpreterebbero non soltanto un ruolo teatrale, ma il desiderio di queste donne di partecipare attivamente a una società in cui non vengano discriminate per ciò che sono.

Altri ancora ritengono che le attrici siano famose a causa del “trucco pesante” (qualsiasi cosa voglia dire), oppure della trama semplicistica e troppo zuccherosa: un giudizio, quest’ultimo, che in parte mi sento di condividere.

Comunque stiano le cose, addebitare l’onda del loro successo soltanto a questi fattori risulta semplicistico, e soprattutto non rende giustizia al grandissimo lavoro dietro a ogni messa in scena e che è evidente in ogni gesto, ogni nota e ogni passo delle attrici. Tra il 2002 e il 2007 i due teatri Takarazuka (quello dell’omonima cittadina e l’altro, costruito a Tokyo più di recente) insieme hanno venduto 2 due milioni di biglietti l’anno, per un tasso di partecipazione del pubblico del 95%. Difficilmente tali numeri verrebbero raggiunti soltanto grazie a qualche fan particolarmente esuberante.

Personalmente, pur non essendo parte di nessun fanclub né essendo amante del trucco pesante, vedrei ancora e ancora gli spettacoli di queste donne talentuose e intraprendenti. Magari coprendomi gli occhi se la situazione dovesse diventare troppo sdolcinata.

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