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Introducendo un’introduzione: To the Digital Observer di Giacomo Calorio

5 Marzo 2020
Matteo Zucchi

Il nuovo saggio del critico e traduttore Giacomo Calorio affronta una difficile sfida: ricostruire i processi di digitalizzazione e internazionalizzazione che hanno reso la cultura pop del Giappone emblema del soft power e il suo cinema un asset stranamente secondario in quest’opera di diffusione. Concentrandosi su questioni tecniche e di fruizione, e grazie ai numerosi riferimenti – inaspettati in un saggio dalle dimensioni ridotte -, To the Digital Observer ridà centralità al cinema nel suo ruolo di strumento di analisi della cultura popolare nipponica e mette in prospettiva le retoriche e le pratiche che la interessano, fornendo notevoli spunti ai futuri ricercatori.

Un’introduzione da vicino: su To the Digital Observer e il suo autore
To The Distant Observer – Form and Meaning in the Japanese Cinema di Noël Burch, uno dei più importanti e citati saggi sul cinema giapponese pubblicati all’estero, si sviluppa attorno al concetto di distanza, intesa in accezione geografica, linguistica, cronologica, culturale ed estetica, connotando quella produzione a partire dalla sua alterità rispetto al cinema europeo o americano. Nato come riferimento quasi faceto a una pietra miliare degli studi sulla Settima arte nipponica, la citazione presente nel titolo si è presto trasformata, come ammette lo stesso autore, in un reale approfondimento del concetto di distanza applicato al cinema giapponese contemporaneo, digitale e internazionalizzato. Già nell’introduzione, programmatica e scevra di ampollosità, Calorio pone questi tratti come elementi imprescindibili del suo tentativo di definire il cinema nipponico degli ultimi decenni. D’altronde l’accademico piemontese è sia autore di monografie sulla produzione cinematografica del Sol Levante, dalla tesi Mondi che cadono: il cinema di Kurosawa Kiyoshi (2007) fino a Toshirō Mifune (2011), sia traduttore di numerosi manga per Panini e di alcuni celebri anime come The End of Evangelion: risulta palese quindi la sua vicinanza alla materia, concetto che si rivela fondamentale ai fini dell’analisi.

Il cinema giapponese ai tempi del transmedia storytelling
L’approccio di Giacomo Calorio si distingue immediatamente per il rifiuto di ogni possibile essenzialismo nell’interpretare i tratti del cinema giapponese, prendendo nettamente le distanze dal diffuso orientalismo di cui anche Burch è stato involontario interprete. Il percorso del cinema nipponico viene rapidamente tracciato in relazione al suo posizionamento nel panorama audiovisivo mondiale, nel sistema dei media del paese asiatico e nel contesto della rivoluzione (di cui saggiamente si sposa la reinterpretazione come “riforma”) digitale, dimostrando quanto molti studi precedenti abbiano acriticamente adottato dei punti di vista caratterizzati da essenzialismi vari e abbiano così finito per replicarne i limiti distorcendo l’oggetto in analisi. Al riguardo è esemplificativo il confronto con Japanese Cinema in the Digital Age di Mitsuyo Wada-Marciano, dove uno dei principali tratti digitali del cinema nipponico viene individuato nella presenza di un nuovo cinema documentario che impone proprio in un contesto digitale un nuovo rapporto con l’immagine e la sua rappresentazione, un DV Cinema che Calorio dimostra essere del tutto marginale nel Sol levante, a differenza di quanto accade in altre cinematografie.

The Ring (2003) di Gore Verbinski, trattato in quanto esempio di internazionalizzazione del cinema giapponese

Allo stesso modo è interessante la decisione dell’autore di tracciare anche le evoluzioni dei formati e dei metodi di diffusione delle pellicole, a partire dal VCD, dimenticato eppure fondamentale in Asia, a riprova della necessità di un approfondimento delle questioni tecniche per evitare fraintendimenti. Il legame fra internazionalizzazione e digitalizzazione (e ingresso della J-Culture nella cultura mainstream, aggiungerei) è evidente nell’analisi di un tema ben noto all’autore, e trattato ampiamente anche da Wada-Marciano, ovvero il J-Horror. The Ring, fortunato remake diretto da Gore Verbinski del film di Nakata Hideo, viene interpretato come perfetta rappresentazione della matrice pre-digitale (il VHS) dell’internazionalizzazione del cinema giapponese, che parte dalla rielaborazione dell’immaginario nipponico diffuso precedentemente e che rende “virale” il prodotto solo tramite il remake/riproduzione, che lo decontestualizza e lo priva della sua “fragranza” tipica.

La pandemia della J-Culture
Concetto derivato da Complicit Exoticism: Japan and Its Other di Iwabuchi Koichi l’“odore culturale” è uno strumento analitico fondamentale per Calorio, che gli permette di evidenziare, sulla scorta degli studi sulla ricezione di Henry Jenkins, la molteplicità di usi e connotazioni attribuita alle pellicole giapponesi (ma il discorso vale per ogni prodotto mediale, pur con alcuni distinguo) in base al soggetto che ne fruisce: vengono rese “inodori” per il pubblico generalista e invece assumono una “fragranza” specifica per i fruitori abituali, in virtù di un preciso immaginario di riferimento che sostanzia la nipponicità degli oggetti. Il tema è complesso e i riferimenti molti, ma passaggi come questo evidenziano i punti di forza dell’autore, il quale spesso raccoglie i “semi” degli spunti lasciati nelle pagine precedenti e li lega agli esempi più efficaci che trova nella sua enciclopedica cultura sull’audiovisivo giapponese e le teorie circostanti, come i prosumer che metaforicamente seminano il loro passaggio di una scia di analisi e visioni facendo crescere l’immaginario e la cultura della propria nicchia di riferimento.

Miraitowa e Someity, rispettivamente mascotte delle Olimpiadi estive e delle Paraolimpiadi estive di Tōkyō 2020

Fra i vari temi affrontati vi sono anche la cultura otaku e l’importanza che assume il sapere enciclopedico nella sua diffusione (cioè nella sua internazionalizzazione), resa possibile dalla diffusione globale dello streaming, strumento indispensabile per ridurre la maggior parte delle distanze descritte da Burch. I nuovi discorsi e tipi di consumo permessi dalla digitalizzazione vengono considerati sia per la pluralità che garantiscono nelle loro “macro-nicchie” che per il rischio di fraintendimenti che una vicinanza non consapevole può comportare, evidente nella feticizzazione di certi elementi della produzione giapponese favorita dalle prospettive “neo-essenzialiste” facili a svilupparsi in ambienti circoscritti. La fruizione “a pacchetti” dei prodotti della J-Culture favorisce questo processo, mescolando media e opere di diversa matrice in base ai criteri più soggettivi, in sinergia con le consolidate politiche di supporto alle industrie mediali più rappresentative da parte del governo giapponese. Il cinema, conclude Calorio, si trova in una posizione interstiziale, schiacciato fra i protagonisti della narrazione transmediale che, in Giappone ancor più che altrove, sono i fumetti e i videogiochi, nonché spesso fra il troppo “odore culturale” per il pubblico generalista straniero e la scarsa “fragranza” per gli otaku di tutto il mondo. Quella che l’autore definisce una “ri-calibratura dell’immaginario”, adibita a produrre nuovi standard e nuovi essenzialismi della cultura giapponese, pare al sottoscritto, per servirsi di un termine termine coniato da Jenkins, un radicale esempio di convergenza dei media (e dei consumi) verso una nuova immagine, e una nuova natura, che si vuole dare alla produzione culturale nipponica.

Il telescopio e il microscopio
Nonostante l’indubbia vicinanza dell’autore alla materia, la principale debolezza di To the Digital Observer, di cui Calorio è visibilmente conscio, è proprio la forzata distanza (tranne negli esempi che vengono sviscerati in maniera ragguardevole) che un’analisi a volo d’aquila esige. Rinunciando fin dall’inizio a ogni presunzione di completezza, il critico riesce a descrivere il percorso di digitalizzazione e internazionalizzazione delle industrie culturali giapponesi e quello del cinema. Così fornisce a chiunque desideri approfondire argomenti di tale complessità una serie di strumenti analitici efficaci, pur limitandosi ad accennare tutta una serie di tematiche di notevole interesse, come i precisi tratti estetici della J-Culture convergente oppure la storia della percezione nipponica del cinema all’interno del panorama mediale.

Il crisantemo e la spada (1946) di Ruth Benedict, uno dei testi fondamentali per la prospettiva orientalista sulla cultura giapponese

Rimarcando in conclusione l’importanza di non farsi abbagliare dalla “supernova” della stagione d’oro del cinema giapponese (in realtà frammentaria e legata a singoli autori o generi) né dalla luce riflessa che il cinema trae dal composito mondo del transmedia storytelling, Calorio invita anche a non considerare pleonastica (se non autoreferenziale) la conclusione del saggio ma a reputarla una sequela di spunti per i ricercatori e gli appassionati del domani. Ai due modelli essenzialisti del Giappone “della spada”, nell’immaginario incarnato da Kurosawa e dal jidaigeki, e “del crisantemo”, di cui si son resi modelli Ozu e il gendaigeki, si è – a partire dagli anni 80 – opposto il Giappone weird, figlio dei tokusatsu, dei manga e degli anime, che ha fatto coincidere nell’immaginario i primi due paradigmi, così da continuare a proporre la retorica duale del “Giappone paese dei contrasti”. Giacomo Calorio sottolinea la necessità di guardare da vicino per scorgere tutte le increspature in queste immagini facilmente riconoscibili e diffuse della J-Culture e potersi così realmente confrontare con la complessità del “marginale” cinema giapponese contemporaneo e della cultura popolare con la quale ha uno stretto, non univoco, legame.

 
 
 
 
 

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