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Frammenti di (dis)umana depravazione: la Vendetta di Ogawa Yōko

6 Aprile 2015
Tania Sarti

Se guarderai a lungo nell’abisso, l’abisso vorrà guardare te, scriveva Nietzsche.

Ogawa Yōko sembra aver accolto il monito del filosofo tedesco, firmando undici racconti intrecciati da una diabolica provvidenza. Vendetta, edito da Il Saggiatore e tradotto da Laura Testaverde, in uno stile disarmante quanto penetrante, conduce il lettore a esplorare il senso del dolore racchiuso in un incubo di mancanza, angoscia, tormento e depravazione.

 

Le prime pagine sono l’incipit di un romanzo nel romanzo, che sembra prendere vita nelle sue stesse parole e nei suoi stessi personaggi: una aspirante scrittrice appena trasferita in un nuovo appartamento, gestito da un’anziana massaggiatrice che coltiva ortaggi a cinque dita nel giardino in cui ha nascosto il cadavere del marito; un chirurgo barbaremente ucciso e una cantante dal petto malformato, che diventa l’ossessione di un artigiano di borse, bramoso di asportare e rinchiudere quel cuore mostruoso nella sua migliore creazione; un misterioso anziano e la sua tigre del Bengala, ultimi baluardi dei segreti di una villa abbandonata, diventata un museo della tortura.

Realtà che vanno in frantumi, frammenti distorti, sinistri, macabri, senza possibilità di ritorno: destini che convergono gli uni negli altri in indizi, rompicapi e oggetti quotidiani apparentemente innocenti – una torta panna e fragole, frigoriferi, camici, pinzette per sopracciglia e ceste di pomodori – complici, in realtà, della discesa nell’abisso delle perversioni dell’animo umano.

Una violenza che affascina, che strazia carne e coscienza nella dimensione della morte più che della vendetta, come suggerisce il titolo originale giapponese Kamokuna shigai, midarana tomurai 寡黙な死骸 みだらな弔い, letteralmente “Cadavere reticente, funerale indecente”.

 

A che punto arriva la morte? Aspettai immobile. Sentivo un odore che mi suscitava nostalgia. Lo stesso di quando avevo trovato mio figlio: umido, con un che di misterioso, lievemente dolciastro.

 

Ogawa Yōko, con una freddezza quasi chirurgica, disseziona ogni piccola parte del lato oscuro dell’uomo, descrivendo i personaggi nelle loro azioni, spesso inconsapevoli della fragilità di quegli equilibri incrinati, responsabili di una catena di efferatezze. Una sola lettura non basta a cogliere i numerosi enigmi e collegamenti dissemimati nel libro: come una storia incisa da ignoti in una grotta segreta, Ogawa cerca di interpretare quei segni, di leggere nelle profondità delle ombre, lasciando a sua volta al lettore una mappa di indizi per creare le proprie storie ed esplorare le proprie oscurità con una innocenza e una purezza che sono perfettamente complementari alla perversione e alla depravazione dei suoi racconti.

 

«Quando muore un cane così grande che si fa?» ripetè il ragazzo, senza avere l’aria di chiederlo a nessuno. […] Ultimamente mi chiedo se scrivere un romanzo non sia tanto un incidere parole in una grotta, quanto piuttosto leggere parole incise in una grotta. Se fossi capace di leggere le parole che sono già lì, forse avrei potuto raccontare al ragazzo cosa sarebbe successo dopo la morte del cane.

 

 

Yoko Ogawa, Vendetta (trad. di Laura Testaverde), Il Saggiatore, Milano 2014

 

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