A cento anni dalla nascita di Hara Setsuko in quel di Yokohama, il 17 giugno 1920, il volume recentemente edito da Bietti nella collana Fotogrammi, ne ripercorre la filmografia, attraverso le trasformazioni epocali che hanno scosso il Giappone nel ‘900.
Pochi registi del cinema giapponese classico hanno saputo mantenere inalterato, con il trascorrere dei decenni, il proprio status di autore di culto com’è accaduto a Ozu Yasujirō. Forse nessuno. Ciò a dispetto del fatto che la “scoperta” del suo cinema fuori dal Giappone sia stata postuma, e sia avvenuta in ritardo rispetto a quella di altri grandi connazionali, talvolta addirittura afferenti a generazioni successive, come nel caso di Kurosawa Akira. Lo stesso di può dire, per quanto ricco sia il pantheon delle dive del cinema giapponese, per colei che di Ozu viene considerata giustamente la musa, come del resto ammette in maniera più o meno esplicita lo stesso regista nelle citazioni riportate nel libro oggetto di questa recensione: Hara Setsuko.
Come avvenuto per la fama internazionale del regista, anche il suo volto (e soprattutto il suo sorriso) è divenuto universalmente noto solo anni dopo che il pubblico festivaliero aveva già preso dimestichezza con i nomi di altre colleghe quali Kyō Machiko e Tanaka Kinuyo; e soprattutto, come per Ozu, la sua carriera si è interrotta anzitempo, nonostante nel suo caso la causa non sia stata il decesso prematuro ma il semplice ritiro dalle scene. Infine, ad accomunare i destini dell’attrice e del regista vi è il fatto che, a dispetto di tutto ciò, nessun’altra grande diva giapponese ha saputo penetrare e abitare con tale persistenza gli immaginari autoctoni ed esteri, nemmeno le muse di altri grandissimi cineasti che, più dello stesso Ozu, hanno tessuto tutto il proprio cinema intorno a formidabili personaggi femminili interpretati da altrettanto formidabili attrici quali la stessa Tanaka (musa di Mizoguchi Kenji), Takamine Hideko (di Naruse Mikio), Wakao Ayako (di Masumura Yasuzō) e Okada Mariko (di Yoshida Yoshishige). Per misurare l’estensione del valore iconico di Hara nella cultura (anche pop) giapponese, basti pensare agli omaggi relativamente recenti che le hanno dedicato esponenti di altre arti visive come Morimura Yasumasa, che ne ha vestito i panni in uno dei suoi celebri autoritratti di icone, o del compianto regista di film d’animazione Kon Satoshi, che l’ha citata alla lettera in una delle sue pose più celebri, nel suo straordinario Millennium Actress (Sennen joyū, 2001).
Omaggio a Setsuko Hara da parte del regista Kon Satoshi nel film Millenium Actress
Ora, se il cinema di Ozu è stato ampiamente analizzato e celebrato da diverse pubblicazioni, all’estero come in Italia, nessuno al di fuori del Giappone aveva sinora dedicato un libro a Hara Setsuko (che è stata sì la musa di Ozu, ma non ha lavorato certamente con lui solo, esattamente come lo stesso regista ha lavorato con altre straordinarie interpreti di quegli anni). Il libro di Claudia Bertolé, pur nelle dimensioni contenute previste dall’agile collana Bietti Fotogrammi di cui fa parte, rappresenta quindi, da un lato, un’operazione niente affatto scontata, se non unica; dall’altro, riempie un vuoto che chiedeva certamente di essere colmato, contribuendo nel suo piccolo a riequilibrare anche sul piano della carta stampata le sorti indissolubili del cineasta e della sua attrice prediletta.
Il testo alterna il percorso biografico di Hara Setsuko, dagli esordi fino al ritiro dalle scene, con quello parallelo del suoi principali personaggi, attraverso le sue più preziose collaborazioni con registi di spicco del panorama giapponese. L’autrice evidenzia a più riprese le ambiguità e le contraddizioni dell’immagine divistica di Hara, anche in rapporto agli ideali femminili della società giapponese più conservatrice (quello della donna remissiva e della “buona moglie e saggia madre”) in un’epoca in cui nuovi modelli si stavano faticosamente facendo strada, ma soprattutto le divergenze tra la Hara donna e l’icona della “Vergine Eterna” cucitale addosso dal cinema giapponese e da Ozu in particolare. Claudia Bertolé scandaglia questi rapporti focalizzandosi particolarmente, attraverso una minuziosa analisi delle sequenze più importanti, su due delle sue interpretazioni più memorabili, sensibilmente diverse tra loro come diverse sono le rispettive poetiche e le protagoniste degli autori dei due film: Tarda primavera (Banshun, 1949) dello stesso Ozu e Il pasto (Meshi, 1951) di Naruse, senza per questo tralasciare brevi cenni ai film nei quali i personaggi incarnati da Hara si sono maggiormente discostati dalla sua icona, come Nessun rimpianto per la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi, 1949) e L’idiota (Hakuchi, 1951) di Kurosawa Akira. A corredo del tutto, infine, l’autrice apre degli utili specchietti sui principali registi che hanno accompagnato la carriera dell’attrice, a uso dei lettori che si affacciano per la prima volta alla cinematografia giapponese da una prospettiva forse singolare ma di certo non meno rappresentativa.
Omaggio di Morimura Yasumasa all'attrice Setsuko Hara
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