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Cyborg, samurai e fiori meccanici: la Neo Edo di Yamaguchi Akira

5 Aprile 2014
Marta Fanasca
 
Quando si parla di arte e di estetica giapponesi si è soliti evidenziare aspetti quali la semplicità e l’eleganza di opere e oggetti, la raffinatezza e la delicatezza delle composizioni, o l’asimmetria e il minimalismo legati alla concezione zen. Tuttavia, nell’ambito dell’arte, è possibile individuare nel corso dei secoli una diversa corrente, che si distacca dagli ideali meditativi wabi-sabi della bellezza trascurata, per dare forma invece all’estro e all’esagerazione.

Pur esprimendo ideali opposti a quelli che si attribuiscono solitamente alla tradizionale estetica giapponese, questa non è una vera e propria rottura con la cultura classica anzi, incarnando quella parte della tradizione che trova la sua celebrazione nei rumorosi matsuri, i festival religiosi popolari con palanchini e processioni a ritmo di tamburo, esprime una visione profondamente radicata nella cultura del Giappone, soprattutto in quella popolare manifestatasi in varie forme durante il periodo Edo (1600-1868). Moltissimi autori, sopratutto negli ultimi anni, hanno iniziato a realizzare le proprie opere ispirandosi al passato, fondendo stili e tecniche, mescolando pittura classica e pop culture, a creare un prodotto unico che è al contempo innovazione e citazione. 
 
È come eredi di questa contro-corrente della tradizione giapponese che si pongono gli artisti presentati nella mostra Bye Bye Kitty- Between Heaven and Hell in Contemporary Japanese Art, ospitata nel 2011 presso la Japan’s Society di New York e che ha portato alla ribalta anche fuori dai confini nazionali fra gli altri Aida Makoto e le sue critiche interpretazioni della società giapponese contemporanea, le architetture fitomorfe di Ikeda Manabu, le immagini oniriche di Kashiki Tomoko. Molte sono le voci che, come si evince dal titolo della mostra, a differenza del dominante gusto kawaii e superflat, offrono nuove declinazioni dell’arte contemporanea giapponese. Portavoce di questa generazione di artisti Tenmyōya Hisashi, curatore della mostra Basara, che per la prima volta, nei locali della Spiral Gallery a Minami Aoyama, ha raccolto queste innovative testimonianze artistiche. Basara è un termine che esprime ostentazione e stravaganza, e basara daimyō erano chiamati quei signorotti del medioevo giapponese che decoravano i loro castelli in maniera sfarzosa e indossavano abiti e armature di eccezionale bellezza e particolare fattura. Sottolineando già dalla scelta di questo termine il forte legame con la tradizione, Basara è l’interpretazione contemporanea della vivace cultura popolare della vecchia Tokyo, dell’energia e dei colori della città bassa, dove a ridosso del fiume ogni notte si animavano i quartieri dei divertimenti, popolati da attori del teatro, splendide cortigiane e ricchi mercanti che si muovevano tra case di piacere, teatri e freak show. La bellezza ricercata nel movimento Basara esprime il gusto per l’eccesso, per lo splendore barocco, per l’esagerazione che sfocia nel grottesco. Si pone al contempo come visione destabilizzante e di rottura, per chi conosce solo un aspetto della tradizione estetica giapponese, ma anche come ponte e congiunzione con il gusto eccentrico del passato. In questo movimento si inserisce anche l’opera di Yamaguchi Akira, classe 1969. Laureato in pittura ad olio presso la Tokyo Geijutsu Daigaku nel 1996, negli ultimi anni si è affermato sia in patria che in Occidente come una tra le più interessanti figure del panorama artistico contemporaneo nipponico. Le opere di Yamaguchi sono un esaltante mix di stili ed estetica del passato e delle contemporaneità. Samurai e casalinghe dividono lo stesso spazio, gomito a gomito, tra la folla che si ammassa all’entrata dei grandi magazzini Mitsukoshi a Nihonbashi, daimyō gyōretsu e salary men in fila per gli uritsukushi si snodano di fronte alle porte di una delle mete d’oro dello shopping tokyota, un flusso ininterrotto di epoche, stili e volti, mescolati insieme in una sovrapposizione di spazio e tempo, in unica caotica città che incarna contemporaneamente la modernissima Tokyo e l’antica Edo.

Etichettato spesso come Neo-Nihonga, definizione sotto alla quale si accomunano artisti che reinterpretano in chiave moderna stili e temi del passato, Yamaguchi si distacca già dal punto di vista tecnico da questa corrente artistica, nata nel periodo Meiji in opposizione alla pittura yōga. Basta guardare ai materiali utilizzati: se nel nihonga classico infatti si utilizzano colori realizzati con pigmenti minerali e i supporti utilizzati sono di solito washi o seta, la tecnica di Yamaguchi è quella, tipicamente occidentale, dell’olio su tela. Senza dubbio Yamaguchi attinge a piene mani dall’eredità artistica del suo Paese, ma senza restringere il suo interesse al solo stile nihonga, nelle sue opere convivono echi della pittura yamato-e così come chiare citazioni dall’ukiyo-e. Dove i grandi formati e le prospettive fukinuki yatai sembrano richiamare le pitture su paravento della scuola Kanō, le nuvole dorate rimandano direttamente alle rakuchū-rakugai di epoca Tokugawa. Ma quali sono le nuove vedute della capitale? Tra le nuvole dorate, generate dallo smog della pulsante capitale, scorgiamo Roppongi e il Mori Art Center, la stazione di Tokyo, e l’aeroporto internazionale di Narita, sorvolato da imponenti aeroplani nei quali normali passeggeri e daimyō si muovono tra onsen e biblioteche. Nella serie Nuove cento vedute di Tokyo, che già dal titolo cita Hiroshige e le Meisho Edo hyakkei, ecco comparire la Tokyo Tower, simbolo ormai tradizionale nello skyline della capitale, arricchita però da complementi architettonici di epoca Momoyama. Quale presente l’artista vuole rappresentare? Guardare le opere di Yamaguchi è come leggere una frase con i tempi verbali confusi, e l’osservatore, trasportato in una macchina del tempo per immagini, stordito si chiede a quali coordinate temporali sia possibile ricondurre quelle immagini.

Ma dove lo stile sincretico di Yamaguchi si esprime in tutta la sua innovazione e fantasia è nei soggetti stessi che popolano le sue opere. Non è solo l’unione di passato e presente, o differenti tecniche e materiali, ma la combinazione tra natura e tecnologia, umano e robotico, colore e bianco e nero a rendere questi lavori dinamiche rappresentazioni della camaleontica realtà del Giappone contemporaneo. Guardiamo ad esempio all’opera Hana (花圖, olio su tela, 2003), pezzo principale di una serie dedicata ai fiori: quella che ad un primo sguardo sembrerebbe una normalissima rappresentazione di un giardino nasconde invece uno scenario tutt’altro che naturale. Tra i tronchi degli alberi e le foglie si nascondo cavi, giunture, placche metalliche; al centro della composizione un uccellino, anche questo però meccanico, simbiosi perfetta tra natura ed artefatto, un nuovo stile “fiori-uccelli” tra linee di inchiostro ed acciaio cromato. Le radici, sprofondando nel terreno grigio, mostrano da cosa proviene la linfa che dà vita ai fiori e ai bambù:circuiti elettrici che spariscono nelle profondità della terra per accedere alla linfa vitale della contemporaneità.

Un’altra interessante serie, sempre dominata dal tema dell’elettricità, è rappresentata dalle opere dedicate alla rivisitazione dei pali elettrici, novelli axis mundi di un presente dominato da luci, colori e tecnologie, uniti tutti sotto l’egida della corrente elettrica, connettivo fondamentale del nostro mondo. Pilastri metallici decorati da complessi grovigli di cavi, questi pali elettrici sono tra i tratti distintivi più caratteristici delle metropoli asiatiche, ma per l’artista diventano veri e propri complementi dell’arredo cittadino, ospitando in strambe costruzioni verticali ofurō, mini appartamenti, negozi e templi in miniatura. Sfruttando l’altezza, in una città come Tokyo dove lo spazio abitativo e vitale si restringe e comprime i residenti, questa sorta di nidi in stile tradizionale sono l’ironica soluzione proposta dall’artista per alleviare i problemi di spazio e sfruttare al meglio la dimensione verticale, senza però abbandonare la tradizione, schiacciata dalla modernità dei grattacieli. Non più semplice struttura, ma un vero e proprio ikebana urbano, chūkado, in una definizione dello stesso Yamaguchi, che alla serie affianca un breve trattato il cui titolo può essere tradotto come “Ricerca indipendente: l’arte di disporre i pali elettrici” (自由研究「柱華道」).

Sia lo stesso Yamaguchi che i commentatori hanno spesso interpretato queste opere come una critica alla modernizzazione forzata ed incontrollata che, iniziata durante il periodo Meiji, secondo molti continua tutt’ora. Ma più che una critica del passato quello che può essere letto tra le caotiche architetture e i cavi elettrici di Yamaguchi è un tentativo di utilizzare il passato per ironizzare sulla contemporaneità. Un esempio si può vedere anche nell’opera Shō da furaku (奨堕不楽圖, olio su tela, 2003) nella quale l’artista punta il dito contro il supporto offerto dal Giappone all’intervento militare americano in Iraq. Riprendendo nel titolo l’esortazione dell’ex presidente Usa George Bush “Show the flag!”, la critica al militarismo è affidata alla rappresentazione di una moderna Neo Edo dove i grattacieli si fondono con le antiche architetture, e soldati armati di lance, archi e M16 cavalcano improbabili destrieri metà moto e metà cavalli.

Nell’opera Kusōzu (九相圖, olio su tela, 2003) invece la fonte d’ispirazione è rappresentata dalle macabre rappresentazione dei “Nove stadi di decadimento del corpo”. Si tratta di un genere di pitture di natura buddista nelle quali è solitamente rappresentato in nove immagini il processo di decomposizione di un corpo femminile. Queste opere erano utilizzate dai monaci come ausilio per la meditazione, evocando tramite immagini crude il disgusto per il corpo muliebre ed i desideri carnali. Nel caso di Yamaguchi invece il soggetto non è il cadavere di una bellezza aristocratica, ma una creatura ibrida metà cavallo e metà motocicletta. In una tela 73 x 244 cm il destriero-cyborg è rappresentato nella prima immagine ancora in vita, cavalcato dal suo cavaliere e rampante, così come nell’iconografia classica dei kusōzu la prima immagine ritrae spesso la nobildonna nel pieno della sua bellezza, per esacerbare il contrasto con le immagini che seguono. Negli stadi successivi invece il soggetto è rappresentato sdraiato in terra e compianto dal padrone, come se fosse appena deceduto, e poi abbandonato senza alcun riguardo e preda di cani randagi che infieriscono sulla carcassa. Susseguentemente è preda di diversi “ladri di cadaveri”, che ne sottraggono le parti meccaniche ancora utilizzabili per poi ridursi, negli ultimi quattro stadi, ad un ammasso di ossa e metallo arrugginito, in una parabola discendente nella quale si può facilmente intravedere una forte critica al consumismo e alla mala abitudine delle ricche società odierne del disfarsi di tecnologie ormai ritenute obsolete, abbandonandone i rifiuti ingombranti, rottami inutilizzabili in un inarrestabile corsa al progresso. Anche in quest’opera dunque, il flusso del tempo e il contrasto tra modernità e passato dominano le atmosfere grigie, coperte da banchi di nubi di probabile origine industriale, che appesantiscono l’atmosfera dominata dai toni della morte, come ribadito anche dal sigillo dell’artista, incorporato in una cornice a forma di teschio.

Analogie, richiami, parodie: è il mitate, la citazione colta, il punto focale delle opere di Yamaguchi. Opere che, come nella tradizione classica giapponese, possono essere comprese integralmente soltanto scovando i riferimenti – artistici e non – a cui sono connesse, in un gioco di specchi tra secoli e tradizioni apparentemente inconciliabili. Ma con le definizioni della critica che lo etichettano come appartenente alla corrente J kaiki, revival giapponese, l’artista sembra non essere d’accordo. Ed è quantomeno riduttivo riportare tutta la fantasia di Yamaguchi a una semplice citazione dei tempi che furono. Quello che intavola con il suo pubblico è un discorso aperto, un’interpretazione mobile di una realtà in cambiamento, nella quale aspetti del passato ed immagini di un futuro sottilmente claustrofobico si intrecciano inestricabilmente. Spetta all’osservatore completare le frasi iniziate dall’artista, entrambi interlocutori in un dialogo grafico nel quale avanza il pensiero che la modernità possa essere compresa nel suo insieme soltanto tramite la consapevolezza del passato.

 

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