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Black Box di Shiori Ito: il coraggio di rompere il silenzio

25 Febbraio 2021
Giulia Colelli

Il caso di Shiori Ito ha suscitato grande scalpore in Giappone, ma ha anche contribuito in modo fondamentale a cercare di abbattere il tabù che ancora grava sul discorso dello stupro, e ha dato il via al movimento #MeToo nel Paese. Finalmente Black Box, il memoir in cui la giornalista racconta quello che le è successo, è arrivato in Italia grazie a Inari Books e Asuka Ozumi.

Il 3 aprile 2015 Shiori Ito, giornalista freelance giapponese, incontra Yamaguchi Noriyuki, giornalista di punta della TBS di Washington, per discutere di una sua prossima assunzione e delle pratiche per un eventuale visto. Durante la cena, Ito perde i sensi, e si risveglia solo la mattina dopo, in una camera di albergo, e realizza che l’uomo sopra di lei che la sta violentando è proprio Yamaguchi.

Nonostante la confusione e il trauma fisico e psicologico subìto, Ito decide qualche giorno dopo di denunciare l’accaduto recandosi a una delle stazioni della Polizia Metropolitana di Tokyo. Gli agenti cercano di farla desistere, ma lei insiste nel portare avanti la denuncia, e vengono finalmente aperte le indagini. Vengono raccolte le prove e preparato un mandato di arresto, ma dai vertici della Polizia Metropolitana arriva un inspiegabile stop poche ore prima.

Yamaguchi, vicino all’ex-Primo ministro giapponese Abe del quale ha anche scritto una biografia di successo, non è mai stato arrestato o perseguito penalmente. Come è possibile che sia stato protetto? Come è possibile che un’indagine che sembrava ormai prossima alla soluzione sia stata interrotta così? In seguito al rifiuto del Pubblico ministero di fronte alla possibilità di riaprire il caso, Ito decide di esporsi e di organizzare una conferenza stampa per denunciare quello che le era successo e far sentire la propria voce.

Shiori Ito, © Sono Aida

Tutto questo è raccontato con lucidità e precisione da Shiori Ito stessa nel suo libro Black Box, edito in traduzione italiana da Inari Books a cura di Asuka Ozumi. Il titolo, che anche nell’originale mantiene l’uso delle parole inglesi, fa riferimento a uno dei termini che la giornalista si è sentita ripetere più volte da investigatori e avvocati: i fatti accaduti quella notte sono accaduti in una stanza chiusa, in una “scatola nera” dove nessuno sa cosa sia successo davvero a parte lei e Yamaguchi.

Black Box, vincitore nel 2018 del premio Best Journalism Award e insignito dalla Free Press Association of Japan,è un libro forte, che affronta una delle esperienze più traumatiche che una persona può vivere: lo stupro. Non solo, Black Box ci ricorda che il trauma legato a una violenza non conosce fine, ma è qualcosa che ci si porta dentro per lungo tempo. È una ferita difficile da rimarginare e che viene riaperta continuamente non solo dai ricordi della vittima, ma anche da una società che non è disposta ad aiutare chi ha subito un crimine così efferato.

La stessa Ito ha dovuto affrontare un percorso pieno di ostacoli per arrivare a far conoscere la sua storia, inclusa l’umiliazione di dover ricreare di fronte a degli agenti di polizia le circostanze dello stupro con l’ausilio di manichini. La giornalista si sofferma su quello che è definito il second rape, ovvero la perpetuazione della violenza nei giorni e nei mesi successivi all’atto vero e proprio a opera di altre persone (spesso membri delle forze dell’ordine o del sistema giudiziario), che costringono la vittima a rivivere più e più volte un’esperienza così traumatica che Ito stessa definisce come qualcosa che “uccide l’anima”.

© Kyodo Reuters

È facile lasciarsi prendere dalla rabbia e dalla frustrazione mentre si legge questo libro, o quando si pensa alla situazione delle vittime di stupro non solo in Giappone, ma anche in Italia e nel resto del mondo. Al fatto che chi denuncia viene scoraggiato, ostacolato, e anche quando riesce a far sentire la sua voce non viene creduto, viene denigrato, minacciato, esposto alla pubblica gogna e giudicato per ogni singolo dettaglio, come è successo anche a Shiori Ito. Ma, come lei stessa ci insegna, per quanto sia giusto indignarsi e arrabbiarsi, è necessario trovare un modo di incanalare questa rabbia in qualcosa che non ci porti all’autodistruzione:

“Se covassi rabbia o provassi vergogna, non potrei dare alcun contributo alla causa. Ecco perché in questo libro voglio essere schietta nel dire quello che penso.

Ripeto, il mio intento non è di per sé narrare ciò che è successo in quanto tale, ma proiettarmi nel futuro perché non accada più. E per capire come ottenere aiuto nel momento del bisogno. Ecco l’unico scopo per cui racconto la mia storia.”

Infatti, questo non è un semplice resoconto, un semplice memoir. Seguendo la sua indole di giornalista, Ito non solo analizza la sua esperienza raccogliendo scrupolosamente i dati e le prove che è riuscita a reperire in questi anni, ma scava anche a fondo in quella che è la realtà del Giappone di oggi, un Paese dove i “kit stupro” (cioè una serie di strumenti e analisi che permettono il rilevamento delle prove a poca distanza dall’accaduto) sono disponibili solo in alcuni ospedali in quattordici prefetture su un totale di quarantasette.

Perché parlare di stupro è ancora considerato un tabù? Come affrontano questa situazione altri Paesi, ad esempio la Svezia? Quali sono le lacune a livello legislativo che rendono impotente la vittima e che proteggono invece l’aggressore, specie se si tratta di un personaggio pubblico e ben conosciuto? Queste e altre sono le domande a cui Shiori Ito cerca risposta, non solo per sé stessa, ma anche per chi si è trovata o si potrebbe trovare nella sua stessa situazione, seguendo quello che lei sente come un dovere civico, il dovere di informare e di attirare l’attenzione sulle ingiustizie che spesso scegliamo di ignorare.

Il libro è stato pubblicato per la prima volta in Giappone nel 2017, nello stesso periodo in cui le accuse a Harvey Weinstein e altri hanno dato vita al movimento #MeToo su scala mondiale, e anche nell’arcipelago ha preso vita il dibattito sulle violenze sessuali. Shiori Ito è diventata portavoce e volto del movimento nel Paese, e il suo coraggio nell’esporsi e nel denunciare quanto accaduto ha ispirato numerose donne a farsi avanti e a far sentire la propria voce, rompendo il silenzio imposto dalle pressioni sociali.

Black Box è sicuramente un libro che necessita di essere letto, un libro che porta a riflettere su come l’intero sistema giudiziario spesso tenda a proteggere chi ha più potere, e non a portare giustizia alle vittime. Un libro che dovrebbe leggere soprattutto chi pensa ancora che sia facile per una donna strumentalizzare un’accusa di stupro a proprio vantaggio. 

Nonostante Shiori Ito parli principalmente della situazione in Giappone, non bisogna dimenticare che quello delle violenze sessuali è un problema che non è assolutamente limitato alla società giapponese, ma che è presente in tutto il mondo, compresa l’Italia. Black Box non è solo una preziosa testimonianza, ma deve servire anche come spunto per continuare a parlare di questo tema, per non dimenticare che lo stupro è ancora oggi un crimine che rimane spesso non denunciato e impunito. Ito stessa ci chiama in causa con le ultime parole del libro, semplici ma efficaci nel ricordarci che questo è un problema che ci coinvolge tutti:

“La procura e la Commissione di controllo sul pubblico ministero, sulla base di questi fatti, hanno deciso di non esercitare l’azione penale.

E voi? Cosa ne pensate?

 
 
 

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