Attraverso un paese ancora scosso dalla guerra, una ragazza compie un lungo viaggio per scoprire il significato dell’amore.
In un mite pomeriggio di marzo mi sono ritrovata, praticamente per caso, a sfogliare il catalogo delle produzioni originali Netflix alla ricerca di qualche titolo che attirasse la mia attenzione. Violet Evergarden lo ha fatto immediatamente, così ho deciso proprio quel giorno di iniziare a guardarlo. Pensavo di ritrovarmi la solita, melensa storia d’amore e invece avevo tra le mani molto di più: questa serie mi ha insegnato ad apprezzare la fragilissima bellezza dell’animo umano.
“La guerra è finita”
Dopo quattro anni di conflitti, Leidenschaftlich e l'Impero Gardarik hanno finalmente trovato la pace. È tempo di tornare a casa. Ma non per tutti è così: Violet è una giovane orfana che, nel pieno del conflitto, viene raccolta e arruolata tra le fila dell’esercito di Leidenschaftlich. Dietro all’aspetto inoffensivo e docile, la ragazza nasconde infatti feroci abilità da combattente, che lasciano intravedere in lei le precoci potenzialità per diventare un soldato perfetto. Rapita quand’era poco più di una bambina e costantemente a contatto con la morte, Violet non sa cosa significhi provare dei sentimenti: si limita a eseguire gli ordini che le vengono impartiti, condannata a chiudersi in un gelido distacco dal mondo. L’unica persona che riesce a guardare a lei con occhi diversi è il maggiore Gilbert Bougainvillea, un giovane uomo profondamente gentile che decide di prendersene personalmente cura. Di battaglia in battaglia, il loro rapporto cresce in silenzio, sino a diventare un legame inscindibile.
Inevitabilmente, sono insieme al momento dello scontro finale della guerra, nel quale entrambi rimangono coinvolti. Gravemente feriti e impossibilitati alla fuga, i due cercano un posto dove ripararsi dal crollo imminente del quartier generale nemico. Ed è proprio sulle scalinate di una vecchia chiesa che Gilbert, accettato il suo destino, le impartisce un ultimo ordine e, sorridendo, confessa a Violet di amarla, frase che però la giovane non è in grado di comprendere.
Qualche tempo dopo Violet si risveglia in un letto di ospedale, sola, con numerose fasciature e due nuove braccia meccaniche a sostituire quelle perdute in battaglia. La guerra è finita e per Violet ha inizio una nuova esistenza. Ormai lontana dai campi di battaglia, non può far altro che eseguire gli ultimi ordini del suo amato maggiore: seguire Claudia Hodgins, che si prenderà cura di lei, e continuare a vivere. Iniziare a vivere.
Per questo, la ragazza soldato comincia a lavorare con Hodgins e i suoi colleghi presso la società postale CH a Leiden, la capitale del regno. Inizialmente si limiterà a consegnare la posta, ma in seguito le viene assegnato il ruolo di bambola di scrittura automatica, le si affida cioè il compito di scrivere a macchina e di esprimere nero su bianco i sentimenti e le emozioni dei propri clienti. Il lavoro per Violet è tutt’altro che semplice, ma la ragazza non si vuole arrendere, spinta dal desiderio di conoscere il significato delle ultime parole del maggiore. Entrare in contatto con ogni genere di emozione risveglia infine in lei quella parte profondamente sincera che è sempre stata costretta a soffocare e ora le permette di creare una profonda sintonia con chi le chiede aiuto.
Con il tempo Violet conquista la fama di bambola di scrittura automatica migliore del paese e i suoi incarichi la portano a spostarsi continuamente di città in città per esaudire le richieste dei propri committenti.
Durante il suo viaggio incontra Irma Felice, una cantante lirica che le chiede aiuto per la composizione del testo della sua prossima aria. La protagonista dell’opera è l’alter ego della stessa Irma: una giovane ragazza che scrive una lettera d’addio al proprio innamorato, partito e mai tornato dal fronte. Il compito di Violet è proprio aiutare Irma a trovare le parole per poter salutare per sempre una persona a lei cara. E queste parole sono nascoste in centinaia e centinaia di lettere accatastate negli scaffali di un ufficio postale ormai abbandonato. Lettere che sono tornate al mittente, incapaci di trovare il loro destinatario. Lettere piene di speranza, di paura, di angoscia, di nostalgia. Lettere che permetteranno a Violet di entrare finalmente nel cuore di Irma, comprenderlo e metterlo su carta. Il messaggio dell’opera, durante il suo debutto, arriva alla platea forte e chiaro: l’amore, per quanto non lo si possa né vedere né toccare, riesce a sopravvivere oltre il dolore, oltre la perdita.
Violet Evergarden nasce nel 2015 come una serie di light novel scritte da Kana Akatsuki e illustrate da Akiko Takase. Nel 2018 il colosso americano Netflix ne acquista i diritti e lo adatta al piccolo schermo, trasformandolo in una serie animata di quattordici episodi diretta da Taichi Ishidate e scritta sotto la supervisione di Reiko Yoshida.
È la struttura frammentaria a rappresentare forse il vero e proprio tallone d’Achille dell’opera: Violet si muove tra le storie dei suoi committenti attraverso la cornice della sua crescita personale, in un susseguirsi di storie brevi, perlopiù autoconclusive. Se da un lato questo ci regala un ritmo narrativo fresco e appassionante, dall’altro il poco spazio concesso ai personaggi secondari non ne consente lo sviluppo, e molti di loro resteranno poco più che comparse. Inoltre, se alcuni di questi episodi centrano il bersaglio, smuovendo qualcosa nei propri spettatori, altri sono decisamente meno potenti e, a tratti, hanno un effetto dispersivo sulla trama principale.
Per di più, lo stesso carattere della protagonista, un essere umano ridotto a poco più di una macchina, rappresenta per lo spettatore un ostacolo all’immedesimazione e all’empatia. Assistiamo ai goffi primi passi nel mondo da parte di questa specie di Pinocchio emozionale, di questa ragazza che cerca di diventare finalmente umana con una sorta di tenera compassione piuttosto che vera e propria partecipazione.
Eppure, Violet Evergarden è estremamente coerente con sé stesso, ci prende per mano e ci porta a osservare una crescita interiore che non è esasperata: è plausibile, e pretende i suoi tempi. Violet raggiunge l’obiettivo di essere finalmente libera dal proprio passato con una fluidità e naturalezza tali che, all’ultimo episodio, ci rendiamo conto di aver sempre avuto la sua evoluzione sotto gli occhi. Il tempo dilatato della quotidianità, la meraviglia che Violet prova nei confronti anche delle cose più banali, ci fanno capire come la protagonista sia un semplice essere umano che ancora non sa di esserlo.
E ogni persona che incontra nel suo viaggio, ogni storia che conosce, ogni lettera che batte a macchina, la avvicina di un passo a questo traguardo. Nessuno escluso.
In un panorama animato che sempre più spesso ci propone titoli del calibro di Devilman Crybaby e Kakegurui , Violet Evergarden rappresenta sicuramente una mosca bianca. È una serie poetica, delicata, dall’atmosfera malinconicamente soffusa e fragile. In un certo senso, è come se viaggiassimo con Violet, dentro la sua valigia, insieme alla sua fedele macchina da scrivere. Vediamo con lei luoghi nuovi, volti nuovi. Esploriamo con lei le sfaccettature dei sentimenti, da zero, come se non li avessimo mai conosciuti.
E impariamo con lei la cosa forse più importante di tutte, che le parole non sempre raccontano una storia; alcune sono lì, in attesa di un perché.