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Magia Record: Puella Magi Madoka Magica Side Story

6 Maggio 2020
Matteo Zucchi

Adattando un videogioco per smartphone, Magia Record ci riporta nel mondo dell’influentissimo mahō shōjo Puella Magi Madoka Magica. Indebolita da una narrazione troppo frammentaria e da un cast ricco ma poco approfondito, la serie dà il suo meglio quando sonda strade non battute dal prototipo, reinterpretandone molti dei fondamenti. L’animazione di alto livello dello studio Shaft e la cura estetica nella caratterizzazione di personaggi e ambientazioni sono comunque un buon biglietto da visita per Magia Record, in attesa della seconda stagione.

Tornare a quasi dieci anni di distanza sulla propria opera si presume sia difficile per ogni creativo, tanto più quando questa è uno degli anime più influenti e apprezzati del decennio appena trascorso. Puella Magi Madoka Magica (Mahō shōjo Madoka magika) ha rivoluzionato completamente il genere al quale il titolo la riconduce, decostruendo uno dopo l’altro i topoi del mahō shōjo, tanto da venire definito, in maniera non del tutto inappropriata, “il Neon Genesis Evangelion degli anime sulle maghette”. L’eredità di quel lavoro, frutto di una fortunata collaborazione fra alcuni dei migliori talenti dell’animazione giapponese, era già nel 2011 talmente pesante che si sono dovuti attendere quasi due anni per vedere la classica trasposizione cinematografica (molto curata) in due pellicole di quei densissimi 12 episodi, cui ha fatto seguito un sequel che per tono e implicazioni narrative è più facile considerare uno spin-off della serie originale. Forse è questo, il lungometraggio Rebellion (Hangyaku no monogatari), il modello della nuova serie.

Se Puella Magi Madoka Magica all’epoca si è mantenuto inizialmente distante da sviluppi transmediali, Magia Record è l’adattamento di un videogioco di ruolo per smartphone del 2017, e ricorda già nel titolo di essere un gaiden, una narrazione parallela e secondaria rispetto alla linea narrativa principale (difatti all’estero è stato spesso definito col termine sidequel). La serie racconta il viaggio della giovane e inesperta maga Tamaki Iroha nella città di Kamihama: si dice sia un luogo che attrae dalle località vicine le streghe – creature mostruose che vengono cacciate dalle maghe per limitarne gli effetti nocivi – e quindi un luogo dove esse possono accrescere il loro potere. La ragazza si reca nella città per scoprire qualcosa di più sulle ragioni che l’hanno spinta a diventare una maga tramite il solito contratto con l’alieno kawaii Kyubei (il quale tra l’altro pare non possa entrare nella città), motivazioni che ha scordato, così come la sorellina: sembra sia fondamentale per trovare la risposta a questi interrogativi ma ora Iroha è l’unica a ricordarla. Il mistero, che viene presentato come uno dei principali temi della serie, viene risolto già alla fine del primo episodio, anticipando lo svolgimento tumultuoso della trama, non sempre fedele alle regole della suspense durante lo sviluppo della serie. E mi permette di anticiparvi che a questo seguiranno altri, piccoli, spoiler.

Per un progetto dipendente da un’altra serie fin dal titolo, rischia di essere problematico non avere alle spalle quasi nessuno degli autori del prototipo. Non ha partecipato alla produzione di Magia Record Urobuchi Gen, sceneggiatore che con l’anime del 2011 ha dato prova – da quasi esordiente – del talento che lo avrebbe portato a mettersi in luce come uno degli scrittori migliori dell’industria (Psycho-Pass è il suo lavoro successivo, per fare un esempio). Allo stesso modo non è stata coinvolta l’autrice della colonna sonora, Kajiura Yuki, fra le compositrici di musica pop più celebrate in Giappone, qui tutto sommato adeguatamente sostituita da Ozawa Takumi. Né è stato riconfermato il regista Shinbō Akiyuki, vero e proprio mastermind di tutte le produzioni Shaft, tanto che questa è, in 11 anni, la prima serie dello studio a non vederlo come regista o supervisore. Shinbō è da considerarsi un precursore della decostruzione del mahō shōjo, dato che è con Magical Girl Lyrical Nanoha, anime da lui diretto nel 2004, che si attua per la prima volta un netto ribaltamento prospettico (che qui si sviluppa a partire dall’origine tecnologica dei poteri delle “maghe”) nel solare e rigidamente preadolescenziale mondo del genere. Gli unici creativi di alto profilo rimasti nella produzione sono il duo di animatori Gekidan Inu Curry (Shiraishi Ayumi e Anai Yōsuke), creatori dei fantastici e sperimentali mondi delle “barriere della strega” nella serie originale, e qui promossi a registi.

La scelta è significativa perché l’elemento di continuità principale fra i due progetti è l’estetica della fantasmagoria visiva, che anima non solo le realtà sovrannaturali create dalle streghe per intrappolare le proprie vittime, ma anche il mondo quotidiano delle protagoniste, dove le architetture razionaliste e brutaliste tipiche delle produzioni Shaft (rappresentate con un grado di realismo di solito ben superiore ai personaggi) vengono deformate in geometrie sempre più surreali. L’eccessiva adesione agli stilemi tipici della casa di produzione e la decisione di radicalizzare certi spunti di Puella Magi Madoka Magica, finiscono per destabilizzare il delicato castello di carte che è una serie di 13 puntate con troppi personaggi e troppi avvenimenti. I primi episodi ripropongono in modalità quasi speculare l’iniziazione al mondo delle maghe di Madoka nel percorso di Iroha, costretta, nonostante sia già una mahō shōjo, a confrontarsi da completa inesperta con una realtà ignota (Kamihama), alle cui regole viene introdotta da un ristretto gruppo di amiche. Finché, fra la terza e la quarta puntata, alcuni avvenimenti fanno vacillare molte delle certezze acquisite in precedenza (e appare un personaggio della serie del 2011, lasciando supporre ci sia una certa ironia dietro la decisione di far coincidere la sua comparsa proprio con la fine del terzo episodio).

Abbiamo accennato all’eccesso dei personaggi, probabilmente conseguenza delle origini videoludiche di Magia Record, che come tutti i giochi di ruolo vede un motivo d’orgoglio nella vastità del roster di personaggi giocabili, la cui caratterizzazione tramite un character design certosino e un background intenso ma sommario può essere soddisfacente per certe esperienze ludiche ma risulta in una debolezza nel contesto seriale. In un paio di momenti, soprattutto nell’ultimo terzo della storia, lo spettatore è spinto a domandarsi cosa motivi l’introduzione di un personaggio principale a episodio, con l’effetto di appesantire la narrazione, che già fatica a progredire secondo i cliché corali del mahō shōjo adottati a partire dalla quarta puntata, i quali risultano tra l’altro fuori luogo in un anime che si propone come gaiden di Puella Magi Madoka Magica. L’impressione è che, di fronte alla consapevolezza di non poter adattare l’intera storia del videogioco in soli 13 episodi, si sia proceduto per accumulo, cercando di creare delle premesse quanto più efficaci possibile sia per coloro che volessero scaricare il titolo sul proprio telefono alla fine della serie per approfondirne le evoluzioni, sia per i fan che rimarranno in attesa – senza spoiler – della seconda stagione, annunciata non a caso dopo i titoli di coda del tredicesimo episodio (che definire “non autoconclusivo” è eufemistico). Da attribuire alle matrici videoludiche è anche la marcata episodicità della parte centrale, strutturata quasi a “livelli”, dove gli scontri con il proverbiale “mostro della settimana” si accompagnano ai piccoli progressi nella ricerca della sorella di Iroha, quête che spesso pare interessare solo alla ragazza, facendo intuire che una tale scarsa rilevanza ai fini della trama sia un’allusione metanarrativa alla pretestuosità di quella sezione del racconto (un vero e proprio casus belli).

Eppure, la parte centrale è quella che sviluppa meglio il tema apparentemente centrale di Magia Record, ovvero la “società” delle maghe e i loro rapporti interpersonali in questa reinterpretazione apocalittica del mahō shōjo. Nella serie di Shinbō e Urobuchi la dimensione narrativa era essenzialmente individuale, con il frequente ricorso al monologo interiore e la costruzione dello spazio attraverso i molti dialoghi che concretizzavano la dimensione autistica della sofferenza delle maghette, motivando tra l’altro gli sviluppi finali e prefinali e i paragoni con Evangelion. Nella serie gaiden la tragedia non è invece mai personale e va interpretata nella prospettiva delle maghe come collettività, mentre la sua causa è da rintracciare nella natura stessa delle mahō shōjo. Il focus tematico molto stringente fa sì che adulti e maschi vengono esclusi con ancor maggiore radicalità dalla dimensione visiva e narrativa, il che conferma la forte connotazione simbolica nelle produzioni Shaft dello spazio, inteso anche come spazio delle relazioni, mentre il desiderio egoistico della protagonista viene sminuito e la storia si configura progressivamente come una rivoluzione di tutte – e per tutte – le maghe.

Qui sta la somiglianza con Rebellion, anch’essa una visivamente e concettualmente avvincente, ma narrativamente poco significativa, nota a margine del capolavoro del 2011 e al contempo un tentativo di porsi al di fuori della sua soffocante eredità a costo di contraddirne alcune premesse e privarsi del suo formalmente impeccabile modello (e difatti non si capisce il rapporto narrativo fra i due). Magia Record: Puella Magi Madoka Magica Side Story ribalta molti dei presupposti concettuali della serie originale e propone un racconto meno consistente e a tratti più convenzionale, ma che comunque evita il rischio della débâcle da cortocircuito narrativo e discorsivo nella quale era incorso poco più d’un anno fa Steins;Gate 0, altro spin-off di una delle serie anime più celebrate del secondo decennio del terzo millennio. Si spera che quanto seminato in questa stagione dia buoni frutti nella prossima, nonostante le fragili radici.

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