Prendete un etto di carne di zombie e uno di arti marziali, stufate in padella con soffritto di distopia post-apocalittica e condite con un pizzico di critica sociale. Prima di servire, decorate con uno stile di disegno tremolante e sovversivo: et voilà, avrete Tokyo Zombie, il capolavoro heta-uma (brutto ma buono) di Hanakuma Yūsaku.
Il mondo si divide in due categorie di persone: quelli che mangiano la trippa con gusto beandosi della sua delizia e quelli che storcono il naso solo a vederla nel piatto del vicino; la stessa operazione si potrebbe delocalizzare utilizzando gli insetti, consumati con gusto da una buona fetta della popolazione mondiale, ma che fanno inorridire noi occidentali solo al pensiero della loro applicazione culinaria.
L’anno scorso mi è capitato di trovarmi a Ōsaka, in uno di quei pub per gaijin, aspettando l’inizio uno di quegli international exchange party per gaijin – in teoria organizzati per dare la possibilità agli stranieri e ai giapponesi di conversare in più lingue; in pratica sono dei banalissimi equivalenti delle feste Erasmus a cui si va per tentare di rimorchiare, o tutt’al più per ammazzare il tempo bevendo birra e 2high, se possibile comprati al konbini per risparmiare. Ecco, mentre ero al bancone con i miei amici gaijin, un amichevole sararīman che diceva di essere appena tornato dalla Thailandia mi offrì un pacchetto di insetti fritti. Sembrava proprio un pacchetto di patatine. Lo accettai senza indugio e, scartatolo, morsi un paio di quelli che parevano cuccioli di cavalletta.
Ora, non voglio mentirvi: sono rimasto piuttosto deluso, perché gli insetti fritti erano abbastanza insapore. Non che fossero cattivi, si lasciavano mangiare, ma erano proprio come delle patatine senza sale. In compenso, posso dire di aver fatto l’esperienza di mangiare degli insetti, che è probabilmente uno più alti traguardi della mia vita. Inoltre, sono sicuro che, da qualche parte nel mondo, ci sia qualcuno che prepara dei fantastici e saporitissimi insetti, e che un giorno, prima o poi, li mangerò.
Un discorso simile vale per quel sottoprodotto mutevole e aberrante del cinema pop contemporaneo, il cosiddetto trash, che si ciba di archetipi e immaginari tipici dell’intrattenimento popolare (dalle arti marziali, ai mostri dei film horror, al soft-porno), li digerisce e li rivomita con un approccio volutamente volgare e demenziale. Non tutti hanno abbastanza stomaco per reggerlo; chi ci riesce può imbattersi tanto in opere banali come Sharknado quanto in piccoli capolavori come Kung Fury.
Tutto questo panegirico iniziale per dire che se siete quel tipo di persona che non rifiuterebbe degli insetti fritti o una serata a base di birra da discount e film trash, allora non potete non apprezzare l’opera di cui sto per parlarvi.
Rallegratevi dunque, amici! Infatti, mentre aspettate che il Parlamento Europeo porti a termine le interminabili procedure burocratiche in direzione di una legislazione che permetta l’introduzione degli insetti commestibili nel mercato comunitario, potete deliziare i vostri palati con l’arrivo sui nostrani scaffali di Tokyo Zombie (東京ゾンビ, Coconino Press, traduzione di Vincenzo Filosa), l’ultimo arrivato nella collana Gekiga, dedicata al fumetto alternativo giapponese.
Tokyo Zombie è uno dei manga più famosi di Hanakuma Yūsaku, esponente della seconda generazione della corrente heta-uma (per un approfondimento rimando alla postfazione dell’opera, di Juan Scassa). Si tratta di un’avanguardia nata in seno alla rivista Garo, la stessa che aveva portato al successo il gekiga, il primo movimento di manga alterativo.
Se il gekiga si proponeva di nobilitare il manga come forma d’arte adatta a un pubblico adulto con un approccio serio ed elaborato sia alle storie che ai disegni, l’heta-uma, figlio dei tardi anni ’70, parte invece da una prospettiva decisamente più punk e decostruzionista, ricercando la spontaneità e la potenza immaginifica attraverso uno stile infantile e dadaista che permette di liberarsi dalle pastoie della tecnica. Heta-uma è infatti una parola composta da heta 下手, letteralmente ‘scarso, non bravo’, e umai うまい, che si può scrivere sia con gli ideogrammi di oishii 美味しい, ‘delizioso’, che di jōzu 上手, cioè ‘abile, bravo’, e che ha dunque il duplice significato di buono e ben fatto. Volendo tradurla in italiano, l’espressione che viene subito in mente è ‘brutto ma buono’, quella dei biscotti alle nocciole dall’aspetto raffazzonato ma decisamente gustosi.
C’è un motivo, però, se ho voluto iniziare con un'altra immagine culinaria, quella della trippa: per descrivere Tokyo Zombie un bel piatto di succulente interiora di bovino è sicuramente una metafora più adeguata di un innocuo dolcetto. Preparatevi infatti a un bel concentrato di squartamenti, violenza gratuita e volgarità che può risultare sconcertante a chi pensa che Tokyo Ghoul sia un anime violento.
La trama è abbastanza semplice: due operai con la passione per il ju-jitsu si ritrovano alle prese con un’invasione di zombie spuntati dal Fuji Nero, una montagna di immondizia sotto la quale per anni sono stati nascosti anche cadaveri. Il vecchio maestro, Mitsuo (anche detto Hage, il pelato), viene morso. Il giovane allievo, Afro (anche lui prende il nome dalla capigliatura), deve sopravvivere da solo in una Tokyo distopica in cui i ricchi si sono trincerati dietro alti muri per proteggersi dai morti viventi, schiavizzando i poveri per provvedere alle proprie necessità. Tra le altre cose, per divertirsi, organizzano combattimenti tra zombie e schiavi, un po’ wrestler un po’ gladiatori romani. Ovviamente il nostro Afro ci finisce in mezzo, ma farà di tutto per liberarsi a colpi di ju-jitsu, in un crescendo che sfocia con un carosello di sommosse popolari, branchi di maiali impazziti e solidarietà tra guerrieri.
Hanakuma non si fa mancare niente: wrestling, zombie, arti marziali, humor nero. E per di più, il tutto è disegnato con un tratto tremolante e sconnesso, in cui qualsiasi pretesa di realismo anatomico va a farsi friggere. Gli ingredienti per il perfetto trash ci sono tutti, persino le inevitabili gag a sfondo necrofilo. Ma la categoria sarebbe limitante: più si procede con la lettura, infatti, più ci si rende conto della potenza sovversiva di un’opera che riesce a coniare tematiche e stile in un linguaggio mai banale.
Se siete amanti delle opere giapponesi che associano un’estetica ultra-violenta a una sottile critica sociale (penso ai film di Sono Sion, o all’harsh-noise di band come i Gerogerigegege) sapete bene quanto il gioco, alla lunga, possa stancare. E, se dopo una ventina di numeri di The walking dead vi siete stancati delle riflessioni esistenziali stile “Siamo noi i morti viventi!” e dello stillicidio di personaggi, sapete anche quanto sia difficile fare un fumetto (o una serie TV) a tema zombie senza diventare noiosi.
Eppure Tokyo Zombie riesce a fare tutto ciò nel migliore dei modi possibili, attraverso una comicità che spiazza il lettore, stravolgendo le convenzioni del genere, disorientando e divertendo (aggiungerei in tempi non sospetti, visto che il manga esce nel ’98, ben prima di altre opere che sfruttano il genere in maniera parodistica come il film Shaun of the dead). Con la stessa operazione, Hanakuma rovescia il simbolo più stereotipato del Giappone, il Monte Fuji, contrapponendogli il Fuji Nero, un cumulo di spazzatura formato dagli scarti della società nipponica iper-capitalista, destinati inevitabilmente a tornare a galla tra miasmi di putrefazione.
Se sentir parlare di morti viventi vi ha già fatto venire voglia di un bel piatto di carne decomposta, forse può interessarvi anche la nostra recensione di One Cut of the Dead, da poco presentato al Far East Film Festival.