È uscito da pochissimo presso la solita Einaudi l'ultimo libro di Murakami nella familiare traduzione di Antonietta Pastore. Si tratta di Uomini senza donne, una raccolta di sette racconti brevi sull'amore.
E qui ci fermiamo. Perché non si tratta affatto dell'"ultimo libro di Murakami", ma della versione italiana di una piccola antologia che comprende un racconto già apparso in Koishikute: dieci selezionate storie d'amore, pubblicato a Tokyo nel 2013. Dal che intuiamo quanto di Murakami non si butti via mai niente, essendo ogni rigo un filone d'oro o d'argento per l'autore, il suo agente e, talvolta, il lettore. Il titolo del libro è anche quello dell'ultima storia raccontata, la più intima, profonda, forse autobiografica. In realtà non si può dire siano storie d'amore, ma dialoghi sul desiderio maschile: diaghi nella forma, ma monologhi nella sostanza. Monologhi di uomini soli che parlano a loro stessi. Il filo conduttore – se necessariamente deve essere ricercato un filo conduttore – sembra essere l'assenza o la scomparsa dell'oggetto del desiderio, il suo allontanamento fisico, sentimentale, la sua morte. Una morte corporale che spesso arriva in ritardo, preceduta dalla morte del sentimento: tradito, esaurito, diluito nelle fantasie, equivocato.Ogni racconto sembra una finestra temporale che fotografa una situazione in divenire che non si risolve: rimane aperta a infinite possibilità e interpretazioni, non vuole conoscere la parola "fine".
La conclusione o il possibile sviluppo prende forma nella testa del lettore che al termine di ogni racconto diventa così autore suo malgrado. Una scrittura che non sazia, ma incuriosisce, fa volere altre righe, altre pagine. Non dissimile dalle porzioni di pesce crudo che seducono con il loro colore e alimentano le aspettative circa il loro sapore, ma che non sono mai bastanti, lasciando languori da riempire. I maschietti non potranno fare a meno di rispecchiarsi nelle situazioni costruite dall'autore, di trovare in esso una specie di licenziatario dell'espressione compiuta dei loro desideri di come vorrebbero la donna: indipendente, ma sottomessa; puttana, ma fedele; presente, ma non troppo. E soprattutto declinata attraverso tante donne diverse, nessuna mai tale da mettere in crisi, da spiazzare o da esaurire la gamma delle nostre vaghe fedeltà.
Non diversamente da certi dipinti di Hopper, le parole di Murakami, i suoi caratteri femminili, diventano come una sorta di"felpatossine" per la nostra vanità: si insinuano nel nostro cervello di maschietti in cerca di onnipotenza domestica, alimentandola, nutrendone l'ego, nello stesso modo in cui desidereremmo che una di queste donne immaginate ci si infilasse tra le lenzuola per il nostro diletto fisico e appagamento psichico.Alla fine, si può dire che sia un bel libro? Tenderei a rispondere che potrebbero essere sette bei libri, perché i racconti intrigano, avviluppano e – come sempre in Murakami – hanno un accompagnamento musicale di pregio – ad esempio un meraviglioso Coleman Hawkins, Joshua Fit the Battle of Jericho– ma rimangono embrioni di vite che non vedono la luce.