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Blue Eye Samurai: Il costo della vendetta

11 Dicembre 2024
Anita Guardari

1656. Un samurai avanza solitario lungo una strada innevata mosso soltanto dal suo desiderio di vendetta. Questo è l’incipit di Blue Eye Samurai, una serie che riprende il classico topos letterario e cinematografico del rōnin in cerca di vendetta e lo trasforma in un capolavoro dell’animazione moderna, con colpi di scena avvincenti e una trama tutt’altro che banale che vi faranno rimanere con il fiato sospeso fino alla fine.

Blue Eye Samurai è una serie tv animata franco-statunitense creata per Netflix, scritta da Amber Noizumi e Michael Green – sceneggiatore di titoli come Logan e Blade Runner 2049 –  e animata dallo studio francese Blue Spirit, uscita nel novembre del 2023. Ha ricevuto un enorme successo ed è stata giudicata in maniera molto positiva dalla critica per l’uso sapiente di uno stile animazione ibrido tra 2D e 3D, che le conferisce il suo aspetto distintivo, e per la sceneggiatura ben strutturata.

A differenza da quanto l’introduzione di questo articolo potrebbe farvi pensare, la trama di Blue Eye Samurai è solamente un omaggio al tanto amato trope del samurai solitario. Infatti, il protagonista Mizu è sì alla ricerca di vendetta, ma non per riavere il suo onore o vendicare la morte di una persona a lui cara, bensì per uccidere l’uomo che l’ha reso un “mostro”. Come suggerisce il titolo della serie, Mizu in realtà è nato da madre giapponese e padre caucasico, dal quale ha preso i suoi occhi glaciali – simbolo evidente del suo status di ‘altro’, di ‘inumano’ agli occhi della popolazione giapponese di quell’epoca.

Infatti, solo pochi anni prima venivano firmati dallo shōgun Tokugawa Iemitsu i primi editti che danno ufficialmente il via al sakoku, il periodo di isolamento del Giappone che durerà per quasi tre secoli. Il termine sakoku indica una chiusura totale, o quasi, del Paese alle influenze esterne: missionari religiosi, studiosi e persino i commercianti stranieri avevano il divieto assoluto di varcarne i confini. Solo alcuni mercanti cinesi e olandesi avevano ancora il permesso di commerciare con i giapponesi, ma anche in quel caso gli scambi erano limitati a un periodo specifico dell’anno e potevano avvenire solo sull’isola artificiale di Dejima, vicino a Nagasaki. Tutto questo non fece altro che alimentare nella popolazione locale un sentimento di diffidenza e a volte paura nei confronti degli stranieri, e i loro figli, spesso generati con prostitute e cortigiane, venivano nascosti o fatti sparire.

Indicativa di quanto questa mentalità fosse diffusa all’epoca è una battuta pronunciata da Ringo – l’improbabile compagno di viaggio del nostro protagonista, un ragazzo nato senza mani e per questo abbandonato – nei confronti di Mizu: «Siete deforme, ma comunque forte». Questa frase, pronunciata in maniera così naturale, indica quanto la discriminazione verso persone condiderate diverse dalla norma fosse profondamente radicata nel tessuto sociale del Giappone di epoca Edo.

Con queste premesse è facile comprendere la missione di vendetta che Mizu porta avanti. Sin da piccolo viene definito un onryō – uno degli spiriti più pericolosi e vendicativi della mitologia giapponese – a causa dei suoi occhi azzurri, e ciò l’ha portato a rifiutare la sua intera esistenza e a scegliere la strada costellata di morte e violenza che sta percorrendo. Blue Eyed Samurai, quindi, prende le distanze dal leitmotiv del samurai in cerca di onore in maniera esplicita: da personaggio ligio alla filosofia del bushidō e per questo in qualche modo positivo e rispettabile, in questa serie acquista una sfumatura più cupa. Mizu è attanagliato da un odio verso se stesso che non riesce a mitigare, neanche con il completamento della propria missione.

Il tema della discriminazione non viene declinato soltanto in termini di appartenenza etnica, ma anche in base ai ruoli di genere: uno dei temi che quest’opera affronta, infatti, è la condizione femminile in epoca Edo, rappresentata in maniera cruda e brutale, senza indorare la pillola. In particolare è attraverso il personaggio di Akemi, altra protagonista insieme a Mizu, che ci vengono raccontate le difficoltà che le donne affrontavano in quel periodo.

Akemi è la figlia di Daiichi Tokunobu, uno dei daimyō (signori feudali) della città di Kyōto. Ci viene presentata come una ragazza forte e determinata a sposare Taigen, un samurai rispettabile ma di basso rango di cui è innamorata. Purtroppo, le cose per lei non andranno come sperato: costretta dal padre a sposare un uomo crudele, scappa via di casa, finendo per diventare una prostituta in una casa di piacere per mantenersi.

Il suo arco narrativo è uno dei migliori all’interno della serie e riesce a trasmettere allo spettatore la condizione di discriminazione e sottomissione in cui le donne si trovavano a vivere in quel periodo. Il loro destino, soprattutto per chi era di alto rango come Akemi, era quello di diventare mogli obbedienti in matrimoni combinati – veri e propri investimenti atti a mantenere e consolidare il potere della loro famiglia di origine. Se invece la famiglia era di ceto inferiore e non poteva permettersi di sfamare tutti i figli, il destino riservato alle bambine era di essere vendute come prostitute e collocate in una casa di piacere per aiutare con le spese. Un concetto che viene riassunto molto bene dal padre di Akemi stessa, che la minaccia: «Se non ti dò in sposa finirai comunque in un bordello a giacere con lui».

Come già menzionato, questa serie non è una produzione giapponese e, nonostante sia strutturata in maniera quasi impeccabile, ci sono alcuni elementi che rendono evidente la sua genesi in un team americano – come ad esempio il linguaggio utilizzato. Infatti, in molti frangenti il linguaggio non è quello appropriato, come ad esempio il titolo di “principessa” dato ad Akemi, che in realtà dovrebbe essere appellata semplicemente “lady”, visto che non è di sangue reale. La serie non è quindi perfetta nella sua rappresentazione storica dell’epoca Edo, ma è indubbiamente ottima come introduzione a questo periodo così importante per la storia giapponese per chi si reputa un principiante assoluto. La rappresentazione delle dinamiche sociali e culturali di quel tempo è di certo in qualche modo romanticizzata, ma mantiene comunque un buon grado di accuratezza se si tiene conto del suo pubblico di riferimento.

Un altro esempio dell’influenza statunitense si può trovare nella colonna sonora e nelle scene di combattimento, che richiamano in maniera forse troppo esplicita alcuni classici della cinematografia americana – vi è un chiaro riferimento a Kill Bill (2003) di Quentin Tarantino nella prima puntata della serie, intitolata Impurità. In questo episodio Mizu si ritrova a fronteggiare un intero dōjo completamente solo sulle note finali di Battle Without Honor Or Humanity del musicista rock Tomoyasu Hotei, dando vita a una delle sequenze di combattimento più adrenaliniche della serie, durante la quale il reale e il fantastico si mescolano nel linguaggio visivo e cinematografico e facendo diventare Mizu ancora più simile agli spiriti a cui viene accomunato.

Un altro degli innumerevoli pregi di quest’opera è l’animazione: un ibrido di 2D e 3D in cui ogni frame preso singolarmente ricorda un quadro, catturando da una parte la bellezza mozzafiato dei paesaggi e delle ambientazioni grazie a stupefacenti giochi di luce, e dall’altro trasmettendo alla perfezione anche le emozioni e gli atti più brutali con movimenti di macchina incredibilmente realistici e combattimenti all’insegna dell’adrenalina.

Tutto questo culmina nel quinto episodio Il rōnin e la sposa nel quale seguiamo la narrazione attraverso tre diversi punti di vista, di cui uno è la rappresentazione di uno spettacolo reminiscente del bunraku, che ci permettono di conoscere meglio il personaggio di Mizu. Il risultato è un amalgama di stili e mezzi espressivi che danno vita a una discesa frenetica e suggestiva nella mente del nostro protagonista e nelle circostanze che lo hanno reso il combattente e la persona che si ritrova ad essere ora.

In ultimo, bisogna parlare anche del cast stellare di questa serie tv che vanta nomi come il grande George Takei, Brenda Song, Randall Park e l’incredibile Kenneth Branagh nei panni dell’ignobile commerciante d’armi Abijah Fowler. Un cast sensazionale accompagnato da una elettrizzante colonna sonora composta da Amy Doherty, nella quale figura anche un riarrangiamento di For Whom The Bell Tolls della band rock Metallica, cantata da Emi Meyer, pianista jazz e cantante giapponese, e che non ha nulla da invidiare al brano originale.

In conclusione, Blue Eye Samurai è una serie che merita tutta l’attenzione che le sta venendo data. Nonostante alcune inesattezze, riferimenti a classici cult americani e istanze di orientalismo, dettati principalmente da esigenze di trama e probabilmente dal pubblico di riferimento, si conferma essere una delle serie tv animate migliori degli ultimi anni, con una trama piena di colpi di scena e un susseguirsi di eventi frenetico che vi terrà incollati allo schermo.

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