Tre storie diverse accomunate dal senso di colpa e dal dolore del lutto, tre vicende di donne alle prese con una quotidianità disseminata di sofferenze. Questo è Voice (Ichigatsu no koe ni yorokobi wo kizame 一月の声に歓びを刻め) di Mishima Yukiko, première internazionale il 27 aprile al Far East Film Festival di Udine. Una pellicola che spiazza nella sua delicata brutalità, riuscendo a trasmettere il dolore profondo dei personaggi e lasciando nel contempo spazio anche alla speranza.
Il film rientra in un genere che sta vivendo negli ultimi anni, soprattutto nel cinema nipponico, un rinascita, l’omnibus, il film a episodi, spesso criticato per la poca congruenza tra le varie storie presentate. Nonostante questo, di recente registi affermati come Nakamura Mayu (She Is Me, I Am Her) e Hamaguchi Ryūsuke (Il gioco del destino e della fantasia) hanno prodotto eccellenti omnibus con una qualità uniforme e costante che hanno portato a una lenta rinascita di questo genere oggi così poco apprezzato.
Mishima Yukiko si inserisce in questo filone riuscendo a intrecciare tre episodi distinti e indipendenti tramite il fil rouge della rielaborazione del lutto e dei traumi del passato, storie dalla difficile ricomposizione che accompagnano i protagonisti da tutta la vita e che colpiscono noi spettatori al cuore. Situazioni che la regista ha concepito basandosi sulla sua esperienza personale: un abuso subito da bambina che diventa il centro nevralgico dell’ultimo, drammatico e toccante episodio presente all’interno del film.
Il primo personaggio che incontriamo è Maki (Carrousel Maki), una donna transgender che ha completato da poco la sua transizione e che vive da sola in una grande villa sulle rive del Lago Toya in Hokkaido. Nel film la vediamo indaffarata a preparare l’osechi ryōri, i piatti tipici del Capodanno nipponico, con una cura e una maestria invidiabili che li rendono perfetti, quasi come usciti da un dépliant. Questa calma apparente però è subito spezzata dall’arrivo della figlia Masako (Reiko Kataoka) insieme al marito e alla figlia. Con la sua entrata in scena iniziamo a comprendere l’ombra che aleggia su questa famiglia apparentemente felice: il dolore per la scomparsa di Reiko, la figlia primogenita di Maki, morta in circostanze tragiche dopo avere subito una violenza da bambina.
Oltre a questo, diventa evidente anche come la transizione del “padre” sia un peso da sopportare difficile per la figlia, che non riesce pienamente ad accettarla e prova ancora del risentimento per la sua predilezione nei confronti della sorella defunta.
L’episodio si conclude con una performance spettacolare da parte dell’attrice Carrousel Maki, che riesce a trasmettere tutta la disperazione di un genitore che si incolpa per la morte della propria figlia, non riuscendo a uscire dalla spirale di dolore soffocante che lǝ attanaglia.
Il secondo episodio, ambientato sull’Isola di Hachijō, segue il ritorno a casa di Umi (Matsumoto Kiyo) dopo cinque anni di lontananza. La ragazza è visibilmente incinta e il fatto che tenti di nascondere al padre (Aikawa Shō) la gravidanza è un indice che non tutto è come dovrebbe. I due sono molto vicini, visto che l’uomo ha dovuto crescere la figlia da solo dopo la tragica morte della moglie a seguito di un incidente che l’ha lasciata in stato vegetativo. Ed è proprio il senso di colpa a tenere uniti Umi e suo padre, ma, a differenza del primo episodio, il lutto risulta in una profonda connessione e in un altrettanto profondo amore tra i due.
Significativa è anche la presenza dei taiko, i tamburi tradizionali che – come ci viene spiegato all’inizio della storia – venivano usati dagli abitanti dell’isola non solo per spettacoli veri e propri, ma anche per comunicare le proprie emozioni. Ed è proprio il suono dei tamburi che ci accompagna per tutto l’arco della vicenda, dando ritmo e voce ai sentimenti dei protagonisti.
L’ultimo episodio, il più esteso dei tre, vede invece un’altra Reiko (Atsuko Maeda) di ritorno a Osaka per partecipare al funerale di un ex-fidanzato. Poco dopo, mentre vaga per le strade della città, incontra uno strano gigolò (Ryota Bando) che le offre i suoi servigi di fidanzato a noleggio, dicendo di chiamarsi Totò Moretti – è solo il primo dei tanti riferimenti all’Italia presenti nel film, tra i quali spicca un cameo della Nutella. I due trascorrono alcune ore insieme prima di finire in un love hotel, dove Reiko, dopo un momento di intimità, esplode nel suo dolore, raccontando al ragazzo dell’abuso di cui era stata vittima a sei anni.
Il monologo è di una bellezza limpida e raggelante, e riesce a comunicare i sentimenti contrastanti che Reiko continua a provare nei confronti del trauma subìto: senso di colpa, impotenza, rabbia e vergogna si alternano con l’effetto di intensificarsi in un climax di emozioni strazianti. Atsuko Maeda è magistrale nella sua performance, che comunica in modo realistico e crudo l’impatto di un trauma così intimo sulla psiche e sul corpo di una persona, e l’effetto è amplificato dalla scelta di regia di girare l’intero episodio in un bianco e nero austero e tagliente.
In questo film Mishima Yukiko sceglie di rappresentare il trauma individuale dei vari personaggi con approcci sempre diversi: nel caso di Maki, le inquadrature documentaristiche dall’alto alternate a tracking shots frenetici ci catapultano fin da subito in una realtà labile, fatta di apparenze e di una pace costruita e mantenuta a stento. Per quanto riguarda la storia di Umi invece la fotografia è più calda, meno asettica e controllata: qui protagonista è la natura nella sua maestosità e, allo stesso tempo, semplicità, resa da inquadrature girate avvalendosi di droni e campi lunghissimi dell’Isola di Hachijō. Infine, nel terzo episodio, decide di sottrarre completamente il colore, giocando sul ruolo dei fiori bocca di leone – di solito di un colore rosa acceso -, svuotati di tutta la loro bellezza proprio a simboleggiare il trauma subito da Reiko.
Nell’epilogo ritorniamo infine sulle rive del Lago Tōya, dove una disperata Maki viene sopraffatta da un’angoscia di cui non si libererà mai, che viene contrapposta alla figura di Reiko che si allontana da Totò sorridendo, consapevole che, nonostante tutto, anche in un oceano di dolore infinito, esiste sempre un modo per tornare a riva.