Una ragazza ansima incessantemente mentre una inquadratura a volo d’uccello mostra un cadavere, il sangue che ne macchia l’uniforme da liceale scorre nell’acqua limpida di un fiume lì accanto. Così si apre il dramma giudiziario December (Yurushi, “Perdono”) di Anshul Chauhan, un film del 2022 che vede la sua première italiana proprio alla venticinquesima edizione del Far East Film Festival di Udine.
Anshul Chauhan, classe 1986 e originario di Noida, nel nord dell’India, si forma in realtà come animatore grafico con Farm Kids e Back at the Barnyard per lo studio statunitense Nickelodeon, ma sarà solo con la partecipazione nella produzione del pluripremiato Delhi Safari (2012) che la sua carriera conosce lo slancio che lo porterà in breve tempo ad avvicinarsi alla produzione indipendente.
Trasferitosi a Tōkyō nel 2011, inizia a lavorare per la Polygon Pictures e viene coinvolto in progetti sempre più rilevanti, fino a lavorare nell’animazione per titoli come Final Fantasy XV (2016), Kindom Hearts III (2019) e Final Fantasy VII Remake (2020).
Mentre si occupa di grafica e disegno, nel 2016 debutta con Bad Poetry Tokyo (2018) per la Kotodawa Films (di sua creazione), e il film viene selezionato come miglior lungometraggio di fiction alla Venice Film Week. Nel 2019 il suo secondo lungometraggio, Kontora, vince numerosi premi, tra i quali il Gran Prix al Tallin Black Nights Film Festival e il Premio Obayashi della Japan Cuts.
December è il terzo lungometraggio a opera del regista. La vicenda porta lo spettatore nelle aule dei tribunali giapponesi focalizzandosi su un caso di omicidio premeditato avvenuto nel 2011 ai danni di un’adolescente, Emi (interpretata da Narumi Kanon), e perpetrato da una sua compagna di classe, Kana (interpretata da Matsuura Ryō). La giovane confessa, venendo quindi condannata a vent’anni di reclusione.
Passati sette anni, il caso si riapre: l’avvocato della giovane richiede un riesame della condanna, contestando la ferocia applicata dal giudice, il che porta la famiglia della vittima ad affrontare, di nuovo, il lutto e il dolore della perdita.
La sete di vendetta (o meglio, una sua visione molto personale di giustizia) fa sprofondare nell’alcol Kazu, il padre di Emi, rovinando la sua relazione coniugale e la sua carriera da romanziere, mentre Sakiko (interpretata da MEGUMI), madre di Emi ed ex-moglie di Kazu, cerca in tutti i modi di prendere le distanze dall’accaduto, di ricominciare e superare la perdita della figlia. Riesce, in qualche modo, a trovare una propria stabilità in una nuova relazione, ma i ricordi e il trauma riaffiorano una volta che il caso viene rimesso sotto esame e sotto i riflettori.
Il film, tuttavia, dà ampio spazio anche alle sofferenze che Kana ha dovuto sopportare durante la sua adolescenza, rimaste a lungo ignorate dalla corte. La volontà di riesaminare la situazione emotiva e psicologica in cui versava la ragazza riesce a dare maggiore spessore alla sua caratterizzazione, offrendo allo spettatore la possibilità di vedere gli eventi anche tramite lo sguardo della colpevole.
Il regista porta sullo schermo una controversa questione sul diritto penale giapponese, adottando un punto di vista super partes che conferisce il giusto distanziamento emotivo tra la vicenda e l’osservatore. In questo modo, senza lasciar trasparire una posizione precisa in merito, Chauhan lascia allo spettatore la decisione finale: condanna o perdono?
Gli attori hanno cercato di immedesimarsi il più possibile nei propri ruoli, spinti anche dal regista stesso, il quale in particolare ha richiesto a Shōgen di riservare a Matsuura un trattamento secco e distaccato anche al di fuori del set, all’insaputa dell’attrice, che si è quindi inconsciamente immedesimata con la sofferenza del suo personaggio.
Tramite gli ambienti chiusi e privi di profondità spaziale, quasi bidimensionali, in cui si muovono i personaggi, Chauhan cerca di trasmettere allo spettatore un senso di oppressione e immobilità: a fare da sfondo all'elaborazione del lutto ci sono solo l’angusto appartamento di Kazu, le austere aule del tribunale, cucine notturne, e i fumosi locali dove le frustrazioni trovano sempre uno sfogo nell’alcol.
In presenza nettamente minore gli spazi aperti, che occupano invece le ambientazioni oniriche degli incubi tormentati di Kana: notte dopo notte, in carcere, rivive con angoscia il momento dell’assassinio della compagna di scuola sulla riva del fiume. Attraverso questa porta sulla mente dell’imputata, lo spettatore è in grado di osservare lo spazio intimo dei suoi pensieri, raggiungendo un grado di vicinanza prospettica tale da permettergli di conoscerla meglio degli altri personaggi – e forse di empatizzare con lei.
Allo stesso tempo, la caratterizzazione di Kazu e Sumiko viene veicolata da altri mezzi espressivi, facendo affidamento soprattutto su caratteri estetici e prossemici: Kazu stringe la mano in un pugno e le nocche gli si fanno bianche, denotando un impeto di rabbia, mentre Sumiko accoglie le notizie sulla riapertura del caso con sguardo vacuo e distante, sapendo bene di essere incapace di affrontare il dolore del passato.
Gli altri personaggi mostrano tratti emotivi convenzionali e non vengono coinvolti in evidenti percorsi evolutivi: Naoki è geloso, l’avvocato Satō è avido e vanitoso, l’avvocato della famiglia Higuchi è una figura statica e imperturbabile, la voce della giustizia dello Stato.
Tuttavia, anche se la premessa potrebbe sembrarci innovativa, December non riesce a coinvolgere lo spettatore come ci si potrebbe aspettare. L’uso della musica non accentua la drammaticità o l’empatia delle scene, ma arriva quasi di soppiatto senza lasciare nulla di particolarmente memorabile, così come alcune scelte dir poco bizzarre di regia e stile filmico.
Per esempio, l’utilizzo degli alcolici come ‘anestetizzante’ delle forti emozioni legate al lutto è veicolato anche attraverso la presenza negli arredi della casa di Kazu di poster pubblicitari di cocktail o birra, che rendono il suo alcolismo quasi macchiettistico, oppure attraverso l’utilizzo di inquadrature ripetute sulla quantità di bicchieri, bottiglie e lattine vuote, anche se i movimenti dei personaggi non sembrano subire alterazioni per quanto siano brilli o ubriachi.
Sebbene i movimenti della telecamera e le inquadrature a volte donino un sentore quasi documentaristico al tutto, aiutando lo spettatore a sentirsi trasportato all’interno della scena tramite l’uso della tecnica della shaky cam, questa viene forse abusata, e viene inserita anche in momenti in cui sembra cozzare con ciò che viene presentato sullo schermo.
Gli elementi che descrivono lo stato depressivo dei tre personaggi principali rimangono superficiali, e, in un certo senso, il personaggio di Kazu viene esasperato nella sua rabbia e nel suo dolore, cadendo a volte in un effetto quasi comico. Il risultato finale è a piatto, distante, distaccato.
Tutto sommato, December non sembra aggiungere niente di più al filone di film di ambito giudiziario, lasciando lo spettatore forse insoddisfatto. Nonostante questo, è certamente evidente lo sforzo da parte del cast, della troupe e del regista di regalare al pubblico un’opera competente ed esteticamente curata.
Trailer: