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NipPop x FEFF 23 – Last of the Wolves

7 Luglio 2021
Giulia Colelli

Shiraishi Kazuya, poliedrico e acclamato regista ormai alla quarta partecipazione consecutiva al Far East Film Festival, ritorna a Udine quest’anno con Last of the Wolves, il sequel che continua la storyline aperta con The Blood of Wolves (2018)!

 

Dopo tre anni dall’uscita del thriller sulla yakuza The Blood of Wolves (Korō no chi 孤狼の血), in concorso alla ventesima edizione del FEFF, Shiraishi Kazuya ci regala il secondo capitolo di questa adrenalinica saga: Last of the Wolves, in giapponese Korō no chi – Level 2 孤狼の血-Level2.

Shiraishi è ormai un volto noto della kermesse di Udine, e in questi anni ha saputo reinventarsi e creare piccoli capolavori spaziando fra generi molto diversi: dai film di yakuza più violenti all’intenso dramma familiare di One Night (Hitoyo ひとよ) e al malinconico biopic Dare to Stop Us (Tomerareru ka, oretachi wo 止められるか、俺たちを).

Un regista di tutto rispetto, quindi, che anche quest’anno non ci ha lasciato delusi. Last of the Wolves prende il via nel 1991, tre anni dopo la fine del capitolo precedente: con l’assassinio del boss degli Irako-kai, la guerra con la gang rivale degli Odani è stata stroncata sul nascere, e Hiroshima sembra poter vivere un periodo di relativa tranquillità.

Ritroviamo subito Hioka Shūichi (interpretato da Matsuzaka Toori), il giovane detective protagonista dell’episodio precedente. Non più inesperto, Hioka ha definitivamente preso il posto di Ōgumi, il suo vecchio partner, nel trattare con gli yakuza: non si fa scrupoli ad avvicinare i capi delle diverse gang e in particolare degli Odani, scendendo a patti e compromessi per mantenere la pace ed evitare un conflitto armato che coinvolgerebbe anche la popolazione civile. Non solo, anche il suo aspetto è cambiato: si è rasato i capelli, abbandonando la sua acconciatura più giovanile, e si è fatto crescere la barba, in un chiaro richiamo allo stile che contraddistingueva il suo vecchio partner.

Fra gli strumenti usati da Hioka c’è anche Chikada Kōta, detto Chinta (Murakami Nijirō), un ragazzo di origine coreana che è entrato a far parte degli Irako-kai, ma che riferisce al detective tutte le informazioni di cui ha bisogno per tenere sotto controllo la situazione.

Tuttavia, la tregua che Hioka aveva raggiunto grazie anche al sacrificio di Ōgumi è in pericolo: Uebayashi Shigehiro (Suzuki Ryōhei), membro fedele degli Irako-kai soprannominato Kyoken (“cane pazzo”) e Akuma (“demone”) per la sua violenza e brutalità, è uscito di prigione, e non ha intenzione di piegarsi al nuovo boss né di mantenere la tregua con i rivali. Uebayashi da il via quindi a una personale vendetta, prima contro la guardia carceraria che lo sorvegliava in prigione, poi contro tutti quelli che lui vede come ‘traditori’ del vecchio capo e fondatore, scalando i ranghi fino a prendere in mano il potere e a prepararsi a combattere nuovamente con gli Odani.

La polizia di Hiroshima è subito in allerta, e affida a Hioka un nuovo partner, Seshima Takayuki (Nakamura Baijaku), un vecchio detective che non si è mai occupato di crimini violenti fino ad allora ma ha fatto parte della polizia segreta, insieme al compito di fermare questa nuova guerra fra yakuza prima che mieta vittime fra i civili. Non mancano però gli ostacoli: dalla poca collaborazione dei suoi superiori, che non vedono di buon occhio Hioka, alla difficoltà che il detective incontra nel trovare le prove per incastrare Uebayashi per uno dei primi efferati omicidi che ha commesso da quando è tornato in libertà.

Non manca anche in questo episodio della saga un elemento di critica sociale: in primo luogo verso la corruzione delle forze di polizia di quegli anni, ma anche a proposito della discriminazione che la comunità coreana, presente in tutto il Giappone ma in particolare a Hiroshima, subiva e continua a subire. Sia il personaggio di Chinta che quello di Uebayashi, infatti, sono zainichi kankokujin, cittadini giapponesi di etnia coreana, ed entrambi sono simbolo del disagio che i membri di questa comunità, specialmente i più giovani, portano sulle spalle per tutta la vita, seppur in modi molto diversi.

(Uebayashi e Chinta)

Un thriller di azione, dove i colpi di scena si susseguono senza pause alternati a scene cruente e quasi splatter, un dettaglio che non sorprenderà chi ha già visto il primo capitolo della serie. Il regista riesce a trasportarci in quelli che a tutti gli effetti erano anni di tensione e di paura, anche attraverso l’uso sapiente di luci e inquadrature. La notte la fa da padrona: sono spesso le luci artificiali a illuminare la scena, inondandola di colori altamente saturati che contribuiscono a creare un’atmosfera quasi surreale.

Shiraishi continua, quindi, nella sua ‘missione’ di riportare in auge un genere considerato ormai superato come quello dei film di yakuza e ci riesce alla perfezione, mettendo la sua firma su due pellicole che probabilmente entreranno a far parte dei cult del genere. Non ci sono ancora indiscrezioni su un eventuale terzo capitolo della saga, completamente adattata da una trilogia di romanzi della scrittrice giapponese Yuzuki Yūko, ma anche in questo caso non possiamo che aspettarci un nuovo cocktail esplosivo di azione e adrenalina.

 


 

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