Pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1987 e uscito in Italia nel 2019, edito da Atmosphere nella traduzione di Gianluca Coci, 69 SIXTY-NINE di Murakami Ryū è un romanzo intenso e coinvolgente, un manifesto generazionale che ci trasporta nel Giappone di fine anni ’60.
Beh, se questo è il Sessantanove del Giappone non si può certo dire che sia stato un quarantotto, pardon un Sessantotto. Certo, gli episodi non mancarono ma tra quelli che Murakami enumera non uno mostra l’impeto che ebbero il Maggio parigino, gli scontri di Valle Giulia, la primavera di Praga o le manifestazioni contro la guerra in Vietnam.
Piuttosto, atti di insubordinazione oggetto di cronaca locale; riottosità adolescenziali dal respiro corto quanto le notti estive; sceneggiate estemporanee per far colpo sulle compagne di scuola; schermaglie e scaramucce vagamente situazioniste, o forse neanche tali (lo sfoggio di nomi di personalità straniere che punteggia le pagine – da Arthur Rimbaud a Gigliola Cinquetti, da Tagore a Jean-Luc Godard – non contempla Guy Debord); bravate di ragazzi che, alla fine degli anni Sessanta, si destreggiavano come meglio potevano tra noia e scontentezza nelle maglie piuttosto uniformi di una società compatta nel perdurante sogno della crescita, senza scampo per i rari Querdenker che provavano a svegliarla.
Il Sessantanove qui ambientato a Sasebo – città natale di Murakami – è una parodia scimmiottata da studenti un po’ svogliati, provvisti di parole di seconda mano divenute titubanti slogan sul tetto del liceo e, al più, di un improvvisato gusto scatologico da impiegare in atti di irrisione verso il preside. È nient’altro che un ulteriore pezzo di modernità importata, inevitabile come la lavatrice nelle avventure di Sazae-san e come il blues suonato dai marines neri al bar del porto.
Motore delle vicende non sono l’impegno politico, l’avversione per l’autorità e le convenzioni sociali, l’afflato pacifista, le istanze per i diritti civili o di liberazione sessuale. È invece la verisimiglianza cercata nei confronti di un immaginato modello straniero, per cui il giovane giapponese, al pari dei coetanei d’oltreoceano, «avrebbe suonato la chitarra, scorrazzato in sella a una motocicletta, conosciuto il rock come le sue tasche, e magari sarebbe stato anche così cool da ordinare un caffè freddo invece del solito riso al curry, fumare marijuana e dare una botta a tutte le ragazze dei dintorni».
Dopo il cupo esordio di Blu quasi trasparente (Kagirinaku tōmei burū 限りなく透明に近いブルー, 1976), Murakami ha preferito cambiare registro e scivolare sulla superficie degli avvenimenti. Allo scandalo ha anteposto il candore, al nichilismo i suoi quasi inavvertibili sintomi rivestiti di ingenuità puberali. Mostra quanto la controcultura, o la sua approssimata contraffazione indigena, per una parte della sua generazione, sia stata un rito di passaggio alla vita adulta, garanzia di appartenenza a una promessa più vasta di quella disponibile sull’arcipelago – l’appartenenza al mondo moderno, appunto, di fronte al quale si era «a bocca aperta» come «la gente del periodo Edo per la prima volta al cospetto di un elefante».
Peraltro, l’ideologia antimperialista (Camus, i Viet Cong e Che Guevara) nonché l’avanguardia culturale (Sartre, Genet, Capote), pur chiamate in causa («Li conoscevo tutti a memoria, i titoli… »), si dissolvono fiaccamente al confronto con l’irrefragabile risolutezza delle umane urgenze: «Giusto di fronte alla piccola sala d’essai che aveva in programma la maratona notturna sul cinema polacco, spiccava un’insegna luminosa dai colori vivaci. Vi erano raffigurate un paio di tette rosa enormi. Mi ero avvicinato e avevo provato a dare un’occhiata, ero in estasi» – e via curiosando, tra négligés e décolletés, con risultati anche beffardi: «Cosa poteva esserci di più triste e patetico di una professoressa di ginnastica vedova di guerra, in menopausa, col culo floscio e appena duemilacinquecento yen nel portafoglio?».
Tuttavia, più ancora che il desiderio di ragazze – quel «magico e inequivocabile profumo di un’adolescente che fiorisce e diventa donna», è la citazione musicale a martellare le pagine di Sixty-nine. Non solo un elenco, né un inventario; piuttosto una landa percorsa a scavezzacollo da Olivier Messiaen ai Velvet Underground, inciampando in un po’ tutto ciò che sta in mezzo, affastellato fino a costituire uno degli aspetti più accattivanti e consistenti del romanzo. Una vera e propria colonna sonora, ampia, salda e al tempo stesso sgangherata, testimone di consumi discografici tipici di una società di massa che ergeva a status symbol nomi occidentali alla rinfusa e rinunciava per partito preso a qualsiasi brano o compositore giapponese – quasi che shamisen, taiko, koto e shakuhachi fossero tutti finiti nei musei di etnologia, e non uscissero proprio in quegli anni lavori epocali come November steps (1967) di Takemitsu Tōrue Wandlungen (1973) di Irino Yoshirō.
Ugualmente degna di riflessione è la lingua adottata da Murakami. Le lingue, anzi, ora dialetto ora giapponese standard, che la disinvolta traduzione di Gianluca Coci lascia intuire in tutta la loro potenza ed eloquenza, volgendo senza mai una forzatura espressioni gergali studentesche e sguaiatezze che mai compariranno neanche nel più irriverente dei vocabolari.