Pochi uomini sono stati al centro di due mondi vivendo il trapasso fra due epoche storiche. Mori Ōgai è uno di questi, e nel suo Diario tedesco (Doitsu nikki) narra l’esperienza di quattro anni di permanenza in Germania come giovane scrittore e ufficiale medico, dal 1884 al 1888).
Proprio durante il periodo di massimo splendore del periodo Meiji, l’allora ventiduenne studente di igiene riceve una borsa di studio per frequentare uno dei posti più all’avanguardia d’Europa, ossia la Germania. In quegli anni il Giappone stava uscendo dal proprio “mondo chiuso”, transitando da una società basata sui valori dell’aristocrazia guerriera a una più moderna, che guardava all’Occidente come principale fonte di ispirazione. Tuttavia il compito affidato a Ōgai non era limitato all’acquisizione di competenze e conoscenze tecniche. Il dottor Hashimoto, suo principale referente all’estero, gli consigliò di «studiare igiene e raccogliere informazioni in merito all’organizzazione del corpo medico tedesco» (12 ottobre 1884).
Ha anche l’occasione di assistere a esercitazioni militari e di venire a conoscenza di tattiche di guerra che si sarebbero poi utilizzate in caso di effettiva belligeranza. Eppure l’assenza di descrizioni in merito lascia ampio spazio a racconti inerenti la vita mondana, legata a contesti e personaggi di alto rango che di rado discutono con il giovane ufficiale medico su questioni politiche e militari. È lecito pensare che l’inclinazione a frequentare uomini illustri derivi dal fatto che la transizione del potere che si compì in Giappone nel 1868 fu la conseguenza di una vera e propria “rivoluzione dall’alto”, sebbene il processo di modernizzazione presenti molte analogie con il caso tedesco.
Il ruolo occupato da Mori Ōgai nel mondo militare diventa occasione per la partecipazione ad eventi sociali e mondani: le pagine che descrivono il periodo che va dal 25 al 27 agosto del 1884 ne sono un chiaro esempio. Oltre all’apparente superficialità che in parte caratterizza giornate dedicate alla lettura della posta, a passeggiate in campagna e alla descrizione cronachistica di brevi attimi di vita quotidiana, è profondo l’incontro-scontro di due culture allo stesso tempo affini ed eterogenee.
Tra gli svaghi più frequenti c’è la frequentazione di caffé, circoli culturali (in particolare gastronomici) e spettacoli teatrali e musicali. Non è un caso che il giovane medico sia colpito dalla potenza romantico-idealistica delle note di Wagner e che voglia tradurre il Faust di Goethe per poter dare il proprio contributo alla ricezione nipponica di una delle maggiori opere europee[1].
Per quanto riguarda l’eredità italiana, la conoscenza del tedesco permetterà a Ōgai di tradurre il primo manifesto futurista e di recepire l’influsso dannunziano in una delle sue opere teatrali. L’opera, Kage, letteralmente traducibile con “ombre”, è resa dal traduttore italiano con Trionfo della morte proprio perché la trama è costruita sulla falsariga dell’omonimo romanzo del quale, per mano di Ōgai, viene restituito uno studio profondo sulla psicologia dei personaggi nella forma poetica e letteraria
giapponese. Oltre alla lettura della «malinconica» Divina Commedia (13 agosto 1884), l’unica citazione testuale riferita a un autore italiano riguarda Fisiologia dell’Amore di Paolo Mantegazza (20 febbraio 1885), scienziato, divulgatore e antropologo, la cui fama è conosciuta anche Oltralpe. L’hapax in esempio è favorevole all’idea secondo la quale la chiusura dei bordelli non potrebbe mai estirpare il fenomeno della prostituzione. Non sappiamo quanto Ōgai conoscesse la vulgata darwiniana e positivista di matrice italiana, la misoginia e l’eugenetica che caratterizzarono il pensiero e gli studi sull’igiene dell’antropologo monzese, ma è certo che fosse contrario alla prostituzione di stampo europeo.
Poco più che ventenne, Ōgai, appassionato poliglotta e studioso di tedesco, inglese, francese e spagnolo, è capace di sostenere discorsi articolati in lingua tedesca e di essere apprezzato non solo per la propria padronanza linguistica. Nei discorsi pour parler intavolati in occasione di lauti pranzi e cene altoborghesi è possibile catturare differenze e affinità culturali. Un esempio è la visione del ruolo della donna nella religione buddhista: secondo Ōgai è falso sostenere che le donne in quanto tali non possono essere illuminate. Esistono donne illuminate. Ne deriva che le donne hanno un’anima e, di conseguenza, un buddhista non è inferiore a un cristiano in fatto di «adorazione delle donne». A fine discorso, una delle mogli sedute al tavolo ringrazia a nome delle altre (6 marzo 1885).
È singolare che l’attenzione di Ōgai si focalizzi su situazioni nelle quali le donne si trovano in una condizione di difficoltà. Ad esempio il 7 agosto del 1886 si narra dell’esclusione di un’artista da una mostra. Sebbene avesse il favore dell’imperatore tedesco, la giovane donna viene respinta dalla giuria perché la sua opera è considerata di scarso valore artistico. Ammetterla al concorso avrebbe significato danneggiarne la reputazione. Così, infuriata, decide di aprire una mostra privata, ma senza ottenere il successo sperato. In pochi la sostengono: fra questi il drammaturgo Wildenbruch, che si oppone alla decisione della giuria.
Sulla questione femminista anche in età più matura Ōgai sembra essere inerte agli influssi di Marinetti e d’Annunzio, i quali convergono su un unico punto: se è vero che, per dirla con le parole di Ōgai, «la donna ha un’anima» e dei diritti sociali, nel momento in cui ella mette a repentaglio la supremazia maschile e dal punto di vista artistico-intellettuale e sui ruoli in campo sociale-amoroso, va stigmatizzata e allontanata. Tale prospettiva è lontana dalla concezione della donna di Ōgai se si considera il topos letterario del doppio suicidio, interpretato in chiave femminile nel suo Trionfo della morte: è «per me stessa, per portare a compimento il sistema del mio io» che la protagonista decide di compiere il gesto estremo, quasi a voler fare da contraltare all’immagine superomistica tanto in voga fra le élite culturali dell’Europa di fine Ottocento.
Leggendo le riflessioni contenute nel Doitsu nikki è possibile percepire la fascinazione e nel contempo il senso di estraneità che accompagnano l’incontro dell’autore con quelle che sono le mode intellettuali europee dell’epoca, profondamente lontane, e per certi versi incompatibili con una cultura in rapida trasformazione ma ancora profondamente radicata nella tradizione del “mondo chiuso” – precedente alla modernizzazione – come quella nipponica, della quale il pensiero e lo stile di Mori Ōgai sono frutto.
Mori Ōgai, Diario tedesco, a cura di Giovanni Borriello, Atmosphere libri, 2019.
[1] Il 24 dicembre del 1884 Mori, stimolato dall’amico Sonken, scrive di voler tradurre il Faust in cinese soltanto “per divertimento”, anche se nel 1913 pubblicherà una traduzione dell’opera in giapponese.