Ultima delle opere di Abe Kōbō, Il quaderno canguro rappresenta il coronamento dell’autore come il “maestro della distopia”. Pubblicato in Giappone nel 1991, dal 2016 il romanzo è disponibile anche in Italia, edito da Atmosphere Libri – all’interno della collana Asiasphere – nella traduzione di Gianluca Coci, autore anche della postfazione che guida alla comprensione del testo
Abe Kōbō 1924-1993
Romanziere, saggista, sceneggiatore, uomo di teatro: Abe Kōbō è probabilmente la figura che meglio incarna lo spirito della generazione di intellettuali emersa dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. La sua vita privata è profondamente segnata dal contesto bellico – nasce a Tōkyō ma cresce in Manciuria, durante l’occupazione giapponese – tanto da proiettare la mestizia della guerra nelle sue opere, facendo del tema dell’alienazione dell’uomo moderno un leitmotiv di tutta la sua produzione.
La sua letteratura può essere divisa in due grandi periodi: alla prima fase esistenzialista, che include i romanzi e i racconti d’esordio – fino a La donna di sabbia, Il volto di un altro, La mappa bruciata – segue poi quella più matura, del puro sperimentalismo. A partire dagli anni Settanta, infatti, si fa sempre più marcata l’attenzione per le atmosfere oniriche e surreali – perfettamente espressa in opere quali L’uomo scatola, L’incontro segreto, L’arca ciliegio e Il quaderno canguro. È in questi anni che si colloca la fondazione dello “Abe Kōbō Studio”, compagnia di teatro sperimentale che pone al centro della propria indagine il sogno. Per la sua esplorazione dell’irrazionale condotta all’estremo, la critica ne riconduce l’attività all’ambito del cosiddetto Teatro dell’Assurdo.
L’impulso alla sperimentazione rende l’autore una figura difficile da collocare nel panorama letterario: innegabile, però, è il fatto che abbia sviluppato una narrativa originale e di portata internazionale.
Al confine tra due mondi
Sarebbe dovuta essere una mattina come le altre. Stavo mangiucchiando una fetta di pane a cassetta ben tostata, spalmata con uno spesso strato di paté di fegato e sedano. Tenevo il gomito appoggiato su un angolo del giornale aperto e il busto un po’ inclinato verso destra. Gli occhi saltavano rapidi da un titolo all’altro, mentre sorseggiavo un caffè nero molto forte. Ho messo in bocca tre pomodorini e li ho schiacciati sotto i denti, pare siano un vero toccasana per la salute.
D’un tratto avverto uno strano formicolio all’altezza degli stinchi.
Questo è il punto da cui prende avvio la narrazione: punto che lascia presagire un irreversibile ribaltamento della quotidianità. Un comune impiegato si sveglia, una mattina, in preda a un forte prurito: le sue gambe sono ricoperte di germogli di daikon. Si precipita in una clinica specialistica, dove viene sottoposto d’urgenza a un misterioso intervento. Comincia così per lui un’avventura allucinante, che lo porterà a compiere un viaggio nel sottosuolo a bordo dell’avveniristico lettino della clinica, in grado di muoversi con la sola forza del pensiero.
Salgo sul letto e mi metto seduto in ginocchio sui talloni, il busto eretto. La massa di germogli di daikon, il cui volume è aumentato più che mai, mi impedisce di piegare con facilità le ginocchia. Faccio appello alle mie energie psichiche e cerco di richiamare alla mente un’immagine di movimento. Il letto prende a tremare debolmente.
All’assurdità della malattia se ne sommano molte altre: il viaggio si compone infatti di un susseguirsi di situazioni grottesche che sfuggono alla comprensione logica, costellate di personaggi bizzarri, contraddittori e fuori da ogni schema. Tra questi, la sexy infermiera della clinica, soprannominata “figlia di Dracula” perché ama prelevare il sangue ai pazienti; o ancora, Hammer the Killer, lo studioso americano che fa ricerche sulla morte accidentale; o i demoni bambini protagonisti del terzo capitolo del romanzo. Intitolato Il fiume di fuoco, il capitolo è impregnato di riferimenti mitologici: a bordo del futuristico letto, il protagonista giunge sulle rive del fiume Sanzu, che nel folklore nipponico è associato all’oltretomba. Qui dimorano quei bambini che non possono passare nell’aldilà perchè non hanno accumulato abbastanza buone azioni in vita e sono dunque condannati a impilare sassi per l’eternità.
Il tempo sospeso
Riapro gli occhi. Non saprei dire se è più giusto affermare che ho ripreso conoscenza o se mi sono semplicemente risvegliato dal sonno.
La dimensione onirica del romanzo è esplicitata nella struttura temporale atipica: il fluire del tempo è tortuoso – talvolta circolare – e la narrazione procede attraverso salti temporali illogici e non-cronologici che spezzano continuamente il già labile filo conduttore della storia. Il protagonista coincide con il narratore, che racconta la labirintica vicenda nel presente della narrazione, man mano che la discesa verso gli inferi buddhisti procede. Completamente ignaro di quello che gli accadrà dopo, l’io narrante si fa compagno del lettore: si può affermare, in questo senso, che i due procedono di pari passo, sotto l’ipnotico effetto di eventi inspiegabili.
I riferimenti temporali sono pressoché assenti, il senso dello scorrere del tempo è del tutto perso. Il protagonista resta sospeso fra la vita e la morte per una durata indefinita: arduo stabilire se siano mesi, giorni, qualche ora o addirittura pochi minuti a separarlo dal mondo ultraterreno.
L’identità perduta
Elemento cardine della narrazione è la metamorfosi, espediente caro all’autore per esprimere l’angoscia della quale l’individuo moderno, privo di identità, è vittima. È lo stesso Abe Kōbō a definire l’uomo del Giappone post-bellico shokubatsu ningen, ovvero uomo vegetale. Ne Il quaderno canguro, questa visione è rafforzata dal fatto che il protagonista subisce una mutazione che lo porta in senso letterale ad assumere le sembianze di un vegetale – il daikon.
La volontà dell’uomo non ha alcun peso, e tutta la narrazione è contraddistinta dalla totale assenza di controllo sugli eventi da parte sua: continuamente perde i sensi e poi li riacquista, brancolando in uno stato di incoscienza che lo rende prigioniero sia del mondo reale che di quello onirico.
Qualcuno mi si avvicina senza alcun preavviso. È normale, in una corsia d’ospedale le infermiere non sono obbligate a chiedere permesso. Un paziente non è altro che una merce difettosa che riesce a preservare la sua forma umana solo perchè è racchiuso in uno stampo chiamato letto.
Così, colorati da una buona dose di black humor, trovano spazio importanti temi quali l’alienazione, la difficoltà – o meglio, l’impossibilità – di comunicare con la società, la disperata ricerca di un’identità – evidenziata, simbolicamente, dal fatto che i personaggi non hanno un nome.
Presupposto fondamentale per la lettura del romanzo – come lo stesso Abe fa presente – è che il lettore si affidi totalmente alle pagine, abbandonando qualunque tentativo di ricercare significati nascosti, e accettando l’impossibilità di razionalizzare.
Attraverso una non-trama che apre la via a più interpretazioni e insistendo sui dettagli, Abe Kōbō riesce comunque a dare una parvenza di realtà anche al distopico universo di cui è il padre.