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Hibana: Spark, l’arte del manzai in dieci episodi

27 Novembre 2018
Domenico Maria D’Adamo

Una coppia di amici d’infanzia, un eccentrico mentore, l’aspirazione artistica soffocata dallo smog della metropoli, la paura di non farcela ed il coraggio di provarci comunque, la comicità e il dramma, il manzai sullo sfondo. Hibana: spark è tutto questo, e anche molto di più.

Distribuito in ben 190 paesi e tratto dall’omonimo romanzo di successo, Hibana: spark ( 火花 ) rappresenta probabilmente il progetto più ambizioso di Netflix Japan. L’intento è chiaro: regalare al mondo, o meglio a una buona parte di esso, lo stesso intrattenimento familiare allo spettatore giapponese medio. È il precursore di tutti gli attuali dorama disponibili sulle piattaforme online, un assaggio della cultura nipponica moderna in dieci pillole facilmente digeribili anche da un pubblico diverso dal solito.
Non a caso la serie vanta un cast stellare, a partire dagli attori fino ai vari registi che si sono occupati dei diversi episodi, e al supervisore generale che porta il nome di Ryuchi Hiroki, regista, tra gli altri, del celebre lungometraggio Tokyo love hotel (Sayonara Kabukichō さよなら歌舞伎町).
Ed è ancora una volta la capitale del Giappone a prestare i suoi luoghi agli eventi narrati. È la Tokyo degli artisti di strada, delle bettole, degli appartamenti fatiscenti riservati agli studenti squattrinati, dei commessi nei konbini che guardando al di là delle porte automatiche fantasticano sul loro futuro, sul successo, sullo spettacolo.
Tokunaga (Kento Hayashi) e Yamashita (Kazuki Namioka) si conoscono sin dalle scuole elementari, accomunati dalla passione per il cabaret tradizionale, il manzai ( 漫才 ) appunto. Quest’ultimo non è altro che la performance dal vivo di un duo comico ben caratterizzato che si scambia continuamente battute pungenti ad altissima velocità, giochi di parole, doppi sensi, fraintendimenti, calembour, interagendo anche con il pubblico, in una sola parola: manzai.

 

 

Il duo, gli Sparks, è alle prime armi e stenta ad avere successo, nonostante gli sforzi della agenzia di talenti alla quale si sono affidati, che assume pian piano il ruolo di una vera e propria famiglia adottiva.
Ma la capitale è crudele, segue leggi proprie, e ben presto anche vivere diventa sinonimo di sopravvivere e, come spesso accade, il loro fagotto di splendide illusioni comincia pian piano a svuotarsi.
Ma Tokunaga, reale protagonista dell’opera, non è solo, attorno a lui interagiscono una serie di personaggi secondari che ne influenzano più o meno positivamente l’agire. È un ragazzo semplice, solitario, spesso facilmente influenzabile, ma gentile e premuroso.
Il suo obiettivo si discosta dal partner Yamashita, più interessato agli agi derivanti dal successo che ad affinare l’arte del manzai, e le cui azioni sono spesso condizionate dalla presenza ingombrante di una fidanzata che, nonostante sostenga il duo, preme segretamente per una situazione più stabile.

 

 

Kamiya (Kazuki Namioka) invece, suo collega più esperto, folgora il giovane artista con la spontaneità e spregiudicatezza che mostra sul palco. È un professionista dell’arte del manzai più autentico, un mentore un po’ scorbutico ma magnanimo che si fa carico del progresso artistico del ragazzo, a patto che quest’ultimo scriva una biografia del suo maestro. Si riassume nell’archetipo del caotico positivo, che dà vita a sottotrame ingarbugliate, frutto del suo dramma personale e delle sue condizioni esistenziali. Anche lui è un parassita della società, come tutti i giovani artisti arrivati nella metropoli carichi di belle speranze e bramosi di attingere al nettare del successo che solo una città come Tokyo può garantire. Ma Kamiya è il senpai consumato dall’esperienza, rigettato dal pubblico, incompiuto, un animo decadente che trova conforto nell’alcol e nelle battute sconce, un senzatetto capace di abbindolare e stabilirsi in case di donne che hanno ormai oltrepassato l’età utile per trovare marito e sistemarsi secondo quanto i canoni della società impongono.

 

 

L’arco temporale in cui la storia si svolge copre ben dieci anni, uno per episodio, aiutato da una regia equilibrata e un montaggio che strizza l’occhio a produzioni cinematografiche di alto livello.
L’evoluzione o involuzione dei personaggi è facilmente prevedibile. Non mancano intrecci amorosi, litigi ed amicizie interrotte, anche se la componente sentimentale e la transitorietà dei rapporti umani è stata volutamente relegata ai margini della narrazione per conferire maggiore risalto al paradossale dramma interiore della comicità, alle lacrime del cabarettista, alla solitudine dell’artista, alla denuncia degli spazi, dall’opulenza di Ginza sino ai quartieri periferici, alle baraccopoli sotto i ponti.
Nonostante il sacrificio, la giovane coppia di comici, gli Sparks, fallisce miseramente, come prima di loro hanno fallito centinaia di altri aspiranti manzaishi ( 漫才師 ). Non esiste lieto fine, per Hibana: spark la società giapponese è un tritacarne immanente che modella, tra i suoi ingranaggi di usi e costumi plasmati da guadagno ed efficienza, giovani artisti trasformandoli in impiegati d’ufficio e funzionari pubblici.

 

 

La serie si dipana nel finale in un’esperienza onirica e paradossale, abbandonando l’andamento lento e correndo a tutta velocità verso un punto zero, verso un nuovo inizio, una nuova vita dove il manzai è stato riposto in un cassetto dal quale riesce nonostante tutto a evadere, rivelando la forza vivificatrice dell’arte.

 

 

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