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Persona: le sfaccettate maschere dell’Io

19 Luglio 2018
Martina Zuppa

Una riflessione sulla ricerca d’identità socio-culturale tra metamorfosi e contraddizioni

Persona (trad. it. di Daniela Moro) è un racconto lungo appartenente alla prima fase della carriera letteraria di Tawada Yoko, edito nel 2018 in Italia per la casa editrice Cafoscarina. L’autrice, quasi come in una pièce teatrale, si serve di una maschera letteraria per introdurre dialoghi e riflessioni sui pregiudizi, gli stereotipi e le incomprensioni cui si è soggetti nel momento del confronto con l’altro. La scrittrice ironizza su alcuni atteggiamenti contraddittori, sulla ricerca, spesso vana, di un’appartenenza socio-culturale definita e sul dono di poter vagare tra due culture diverse, per quanto doloroso possa essere il non sentirsi effettivamente parte di nessuna delle due.

Fratello e sorella

Tawada Yoko si serve di uno dei topoi letterari più radicati nella letteratura giapponese, il legame tra fratello e sorella, come punto di partenza della sua riflessione critica. Michiko e Kazuo sono, infatti, fratello e sorella, trasferitisi ad Amburgo per motivi di studio. Kazuo porta avanti gli studi con regolarità, ma rimane rigidamente ancorato ai modelli di vita e di pensiero giapponesi, mentre Michiko, trovandosi in una posizione più incerta e liminale, non riuscendo a portare avanti il suo lavoro di tesi e non godendo più dei privilegi di una borsa di studio, viene a contatto con una realtà più autentica, grazie alla sua posizione di outsider.
Michiko si rende presto conto di non condividere molte delle posizioni del fratello, o della comunità giapponese presente ad Amburgo (rappresentata dalla signora Sata, da sua figlia e dalla signora Yamamoto). Non può condividere l’atteggiamento di distaccata superiorità del fratello o la pretesa di continuare a utilizzare elettrodomestici giapponesi della signora Sata. Prova disagio nei confronti di queste dimostrazioni di appartenenza, un disagio mediato nella narrazione tramite l’uso di una pungente ironia.
L’autrice mette quindi a confronto queste due figure non solo per rafforzare l’opposizione tra due diversi atteggiamenti, ma anche per chiarire un concetto fondamentale su cui riflettere: lo stereotipo non nasce solo all’interno della comunità ospitante nei confronti dello straniero, ma anche nella minoranza ospitata che tenta in qualsiasi modo di difendere la propria identità.


Incomunicabilità

La posizione di outsider che Michiko ricopre è però portatrice di una dolorosa consapevolezza. Nonostante non possa accettare le posizioni del fratello, non può nemmeno farsi comprendere appieno da qualcuno che non sia giapponese. Thomas, il ragazzo che frequenta, trova da ridire sui suoi atteggiamenti, sul fatto che, proprio come una giapponese, non riesca a dimostrare apertamente i propri sentimenti. L’autrice può così introdurre un’ulteriore riflessione: gli atteggiamenti e i gesti con cui esprimiamo noi stessi sono culturalmente connotati. Le incomprensioni con il membro di un’altra comunità sono inevitabili. Michiko però è ormai troppo distante anche dalla sua di comunità: per sembrare più giapponese è costretta allora a indossare una maschera, a truccarsi prima di andare a casa della signora Sata per non sembrare vietnamita, fingendo un’appartenenza culturale che è sempre più lontana e sfumata. Quello che emerge, in ultima analisi è il senso d’incomunicabilità e di straniamento, l’impossibilità di appartenere a uno solo dei due mondi e la necessità di allontanarsi da entrambi.

Flotel Europa: abitazioni galleggianti temporaneamente occupate da immigrati, solitamente provenienti dell’Europa dell’est, ancora in cerca di una abitazione definitiva sulla terra ferma.

Metropoli, confini e metamorfosi 

L’allontanamento non è solo psicologico, ma anche spaziale. Michiko sente fisicamente il doloroso bisogno di muoversi e fuggire dallo “spazio giapponese”, rappresentato dall’appartamento che condivide con il fratello. Cammina a passo svelto, supera i confini della città che solitamente frequenta e si inoltra in spazi nuovi, inesplorati, attratta irresistibilmente dallo spazio liminale in cui sono confinati altri stranieri, la Flotel Europa.
Ancora una volta Tawada Yoko sfrutta questo atto della narrazione per riflettere con ironia sul concetto di stereotipo. Quando Michiko si allontana dalla sua rotta per esplorare nuovi territori metropolitani, muta in parte la percezione di sé e di sé nello spazio, sperando inconsciamente di venire a contatto con una realtà diversa sia da quella giapponese (dalla quale non si sente più rappresentata), che da quella tedesca (che non riesce a comprenderla pienamente). Purtroppo la verità è che lo stereotipo è parte di qualunque comunità, è uno strumento di identificazione del sé in opposizione all’altro.
Il vantaggio di Michiko è, però, quello di aver subito una metamorfosi, di aver vissuto in più luoghi ed essere cambiata con essi, è per questo motivo che può riconoscere lo stereotipo e dubitarne. Lei conosce due lingue e, come la stessa Tawada Yoko afferma: “la possibilità di vagare tra una cultura e l’altra è un dono destinato solo ad alcune persone.” La liminalità è quindi, per quanto dolorosa, un dono.

Riflessioni di una maschera

La possibilità di vagare tra una cultura e l’altra, rende l’appartenenza a una sola cultura sempre più sfumata e impossibile. Si finisce allora per rappresentare diverse persone (nel senso di dramatis personae), diversi personaggi teatrali, e indossare la maschera della cultura alla quale si vuole appartenere in quel determinato momento. Questa rappresentazione scenica si serve dello stereotipo come strumento in grado di accentuare i tratti del personaggio e garantire l’effetto desiderato: sentirsi parte di una determinata cultura.
Se tutto ciò sembra essere suggerito sia dal titolo del racconto, sia dal modo in cui Michiko si relaziona con i vari personaggi in scena, in realtà la conclusione è totalmente inaspettata. Quando Michiko indossa fisicamente la maschera di Fukai (usata nel teatro Nō per rappresentare la donna matura giapponese, aggraziata ed elegante, ma al contempo capace di forti passioni) invece di accentuare la sua appartenenza alla cultura giapponese si strania da qualsiasi nazionalità. La maschera copre il suo volto e “proprio nel giorno in cui appariva più giapponese del solito, la gente non si accorse della sua nazionalità.”. Sembra che accentuare una determinata caratteristica, in questo caso l’appartenenza alla cultura giapponese, abbia portato all’annullamento della stessa. In questa mancanza totale di connotazione culturale, con il volto celato dalla maschera, Michiko può finalmente sentirsi libera.

 

 
 

 

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