Stop (2015) è un film del regista coreano Kim Ki-duk presentato a Bologna in occasione della seconda parte dell’edizione 2017 dell’Asian Film Festival. Si tratta della prima produzione giapponese del regista che si inserisce tra le varie che raccontano del fatidico incidente del 2011 alla centrale nucleare di Fukushima e, soprattutto, delle conseguenze che finirono per stravolgere la quotidianità di tantissime famiglie.
I protagonisti sono Miki e Sabu, una giovane coppia che viene evacuata da Fukushima subito dopo l’incidente alla centrale. Si rifugiano a Tokyo con le poche cose che sono riusciti a portare con sé, trovando un piccolo appartamento e cercando di sopravvivere. Tuttavia presto scopriamo che Miki è incinta e, appena sistemati nella nuova casa, i due ricevono una telefonata piuttosto insistente da un uomo misterioso apparentemente mandato dal governo. La richiesta è chiara: che Miki abortisca perché a causa delle radiazioni il bambino rischia di avere delle malformazioni. Da questo momento la donna, sempre più convinta che sia meglio abortire, entra in crisi mentre il marito insiste per il contrario, affermando che gli esseri umani non sono così deboli e che il loro bambino starà benissimo. Sabu, per cercare di convincere la moglie inizia ad andare a Fukushima a scattare foto alla fauna del posto, soprattutto ai cuccioli, per dimostrarle che va tutto bene e che tutti sono in salute.
Tuttavia arriva un momento in cui i percorsi dei due protagonisti si invertono: Miki decide di accettare la sua situazione e il suo bambino, mentre Sabu, dopo un particolare evento, inizia a insistere perché la moglie abortisca. Da questo punto in poi si apre anche la vera crisi della coppia.
Dettaglio interessante è che gli unici personaggi dei quali ci è dato sapere il nome sono appunto i due protagonisti, mentre tutti gli altri che ricoprono un ruolo più o meno importante rimangono in un certo senso degli sconosciuti. Questo fattore accentua il ruolo predominante di Miki e Sabu e fa effettivamente emergere quanto la storia principale in fondo sia la loro storia, anche se simbolicamente rappresenta la stessa situazione vissuta da molte altre famiglie in quel drammatico contesto. Il tema della gravidanza e di eventuali conseguenze negative per il feto a causa delle radiazioni è piuttosto comune in questo genere di pellicole, tra le quali ad esempio anche The Land of Hope (2012) di Sono Sion.
Con lo sviluppo della trama si palesa sempre di più anche la denuncia politica e sociale in merito all’utilizzo di energia elettrica prodotta da centrali nucleari. Infatti lo stesso Sabu ripete di continuo che la colpa è tutta dell’elettricità e dell’uso smodato che l’uomo ne fa, senza porsi troppe domande sulla sua provenienza. Proprio per questo motivo il protagonista porta avanti una lotta personale contro l’elettricità e l’energia luminosa che sembra essere costantemente sprecata in un contesto urbano come quello di Tokyo.
Si può notare quasi un progressivo spostamento del focus principale: se inizialmente il tema messo in evidenza è quello del dramma di portare avanti una gravidanza in condizioni tanto dolorose, successivamente l’accento viene posto sulla questione della produzione di energia elettrica e sui rischi delle centrali nucleari.
La vita dei due protagonisti è quindi irrimediabilmente segnata dall’incidente di Fukushima e ognuno di loro fa i conti come può con la situazione che si trova a fronteggiare, senza possibilità di fuga: arriva quindi il momento inevitabile di una malinconica accettazione della propria condizione.
La pellicola offre quindi uno spunto di riflessione su temi piuttosto comuni ma mai scontati, come ad esempio il disagio psicologico a seguito di un disastro di questo tipo o anche la gestione di situazioni di crisi da parte delle istituzioni, che arrivano al punto di sopraffare l’uomo, anche in un paese come il Giappone, mentre tutto rimane apparentemente stabile.