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Poetica dell’assurdo nell’opera di Hitoshi Matsumoto

30 Agosto 2017

Il web, con il suo gusto morboso per l'orrido, è sicuramente complice della riscoperta di un certo "cinema strano giapponese", riscoperta che, tuttavia, sembrerebbe spesso soffermarsi solo sugli aspetti più deliranti di queste opere senza percepirne la portata avanguardistica.

Vi sono però registi in cui è palese come l'utilizzo del nonsense paradossalmente non sia mai fine a se stesso ma riconducibile a una precisa poetica. Fra questi, Hitoshi Matsumoto è riuscito fin dal suo esordio con Big Man Japan a inserirsi nei festival cinematografici dal gusto più snob.

Big Man Japan rappresenta  in un certo senso quello che Watchmen ha rappresentato per il fumetto degli anni ‘80: le scene in cui il regista gioca con la sospensione della veridicità inevitabilmente insita in ogni opera a tema supereroistico vanno tranquillamente a braccetto con l'avvilente rappresentazione della vita quotidiana del protagonista. L'idea di superare i limiti del già detto attraverso l'esasperazione fino al ridicolo di un certo stereotipo non è  un'invenzione  di Matsumoto;  basti pensare a serie come One Punch Man, il cui tema portante è la decostruzione del genere shōjo, o al filone più splatter della filmografia di Miike Takashi.

Tuttavia in film come R100 il gioco metanarrativo fa un passo ulteriore. La trama principale viene accostata a brevi intervalli in cui la censura contesta il film e cerca di comprenderne i non sequitur. Matsumoto lascia qui intuire uno degli aspetti cruciali della sua poetica: dando spiegazioni chiare per decifrare le pindariche analogie della sua opera, l'autore sembrerebbe lasciare così intendere quanto sia fine a se stesso cercare di tradurre in significati espliciti le sue creazioni chimeriche.

Un topos ricorrente nella produzione del regista è sicuramente l'incapacità dell'individuo di comprendere le sventure gratuite che lo affliggono: i protagonisti sono uomini qualunque, Gregor Samsa privati di una vera individualità, le cui tragedie vengono oltretutto rese attraverso l'ironia caustica tipica di Matsumoto, paragonabile a una sorta di Natura leopardiana, indifferente agli esseri che mette al mondo. Così ad esempio, dietro al tono solo apparentemente faceto di Symbol si sedimenta una cinica trama esistenzialista, che vede un uomo abbandonato in una sorta di barocca costruzione borgesiana. L'umorismo utilizzato da Matsumoto è sempre inaspettato e, per questo, letale: le trame più drammatiche vengono repentinamente squarciate e fagocitate da interludi nonsense  in maniera analoga alle risposte imperscrutabili  di un arcigno maestro zen.

Volendo rintracciare un minimo comun denominatore nella cinematografia di Matsumoto (per definizione un'operazione riduttivista, specie in opere così magmatiche) si può notare come i personaggi, anche grazie a una catarsi finale, riescano infine a immergersi nell'incomprensibile che viene posto loro di fronte, riuscendo, come Sisifo, a convivere con l'Assurdo e con il dramma della quotidianità.

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