J-Horror non solo è un termine noto a cinefili e intenditori di cultura giapponese contemporanea, ma è anche un concetto entrato di diritto nel comune vocabolario di ognuno di noi. Questo perché la diffusione di tali pellicole (perché di cinema si tratta), ha avuto una risonanza mediatica, a cavallo del nuovo millennio, tale da essere importate e imitate da diversi paesi del blocco euro-americano.
Nel 1998, Ring (リング), film diretto da Hideo Nakata, ha impresso un segno profondo nel mondo della cinematografia di genere e nell’immaginario collettivo mondiale, introducendo per la prima volta le figure degli yūrei (particolare categoria di fantasmi giapponesi) in una pellicola ispirata da una storia popolare (quella di Banchō Sarayashiki) e destinata a un pubblico internazionale. Il successo fu considerevole, tanto da spingere alcune case di produzione americane a girare un remake appena 4 anni dopo. La novità più importante è nella commistione di elementi tradizionali e moderni e la conseguente convivenza e fusione tra creature e spiriti millenari con elementi tecnologici di uso quotidiano. Ne è un esempio calzante la famigerata videocassetta protagonista del film, un surrogato odierno e in plastica di uno scrigno contenente la maledizione della perfida Sadako. La maggior parte degli yūrei che si manifestano nel cinema J-Horror sono chiamati onryō, ovvero fantasmi, genericamente di sesso femminile, ancora legati al mondo terreno da sentimenti di pura vendetta. Si attengono a un’iconografia ricorrente e riconducibile all’antico teatro kabuki, dove queste creature si contraddistinguevano per gli abiti bianchi e per la folta chioma di capelli neri sciolti a celare il volto.
Strano e altrettanto affascinante è stato il destino di Ju-On (lett. “Rancore”) di Takashi Shimizu, film del 2000 considerato il diretto erede di Ringu, concepito però per il mercato home-video e non destinato quindi alle grandi proiezioni. Il successo, in questo caso, fu inaspettato e travolgente, tanto da consentire all’opera di svilupparsi in un sequel e di attirare l’attenzione dei produttori americani che hanno poi trasformato la storia di Shimizu in una trilogia dal titolo The Grudge. Anche in questo caso si notano elementi ricorrenti del panorama horror nipponico, come l’omicidio mosso da gelosia e tutta una serie di sentimenti negativi che legano gli spiriti dei defunti al luogo del misfatto. La maledizione, in questo caso, si propaga poi come un’epidemia a causa di una serie di eventi giostrati da protagonisti troppo curiosi.
Ma il J-Horror presenta caratteristiche peculiari che prescindono dall’elemento trattato e che si fondano prettamente sullo stile narrativo. Si delinea come un horror di carattere psicologico che preferisce costruire il pathos e la paura derivante dalla tensione su ciò che non viene mostrato, su ciò che rimane nascosto e silente. E’ un genere che predilige la lentezza, gli eventi si dipanano poco a poco e le scene scioccanti si manifestano con un certo preavviso. Ne sono un esempio i film del maestro Kiyoshi Kurosawa, dove gli avvenimenti si alternano come in un sogno, uno stato alterato dei personaggi che non sempre riescono a comprendere la gravità delle situazioni. Il risultato è un prodotto ipnotico per gli occhi degli spettatori, un horror che tiene in apprensione grazie al suo andamento simile a uno slow-motion.